di Anna Alfieri
Il 5 marzo scorso ho avuto l’occasione di parlare quietamente, quasi confidenzialmente, con Anita Garibaldi. No, non con la bellissima e battagliera ragazza creola morta ventinovenne in mezzo alle paludi di Comacchio nel 1849, ma con la sua omonima pronipote che, ovviamente, è anche la diretta pronipote del nostro massimo eroe nazionale, Giuseppe.
Ho avuto modo di conversare con lei a Palazzo dei Priori, presso la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, dove si inaugurava, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una bella mostra di Alessandro Kokocinski, tutta dedicata all’epopea garibaldina.
L’inaugurazione – che dato l’argomento, la circostanza e la fantasiosa ampiezza delle opere esposte avrebbe potuto sfociare in chissà quale retorico cerimoniale – si è invece svolta senza enfasi alcuna, in una intimità quasi familiare nella quale l’Anita attuale ha conversato con tutti, soffermandosi affettuosamente soprattutto sull’infanzia di suo nonno, Ricciotti Garibaldi, il figlio più piccolo dell’Eroe dei due Mondi e di sua moglie Anita. Un bimbetto biondo, smarrito, frastornato e disperato per aver perso tragicamente la sua bella mamma affettuosa quando era un cucciolotto non ancora del tutto svezzato e per essere stato abbandonato, a soli due anni, dal padre che, braccato da tutti gli eserciti d’Europa per aver difeso la Repubblica Romana, non poteva (non poteva!) tenerlo con sé. Infatti Garibaldi, (che era davvero quel bel Garibaldi biondo e fascinoso da noi immaginato), lo affidò ad una sua ammiratrice inglese la quale, a sua volta, lo fece educare in un costoso collegio anglosassone, dove il piccolo soffrì di solitudine quasi a morirne. Piangeva sempre, il cucciolotto smarrito e, appena imparò, cominciò a scrivere lettere, così strazianti che – come afferma oggi sua nipote – a leggerle ancora stringono il cuore.
Ricciotti, al quale il padre aveva dato il nome di un patriota fucilato in Calabria insieme ai fratelli Bandiera, riuscì a raggiungere Caprera solo quando era ormai giovinetto, e quando suo padre aveva già compiuto la spedizione dei Mille. Ma, a parte l’inatteso splendore della natura dal quale rimase abbagliato, nulla, nulla di quanto trovò in Italia gli piacque realmente. Perciò, disgustato per la condotta del Governo nei confronti di quel Mezzogiorno che suo padre aveva consegnato ai Savoia, fuggì dall’isola e si rifugiò tra i “briganti” del Sud della Penisola. Cioè – come oggi racconta Anita – aderì ad un ruvido moto filo repubblicano, poi duramente represso dall’esercito italiano.
Ciò nonostante Ricciotti (nella foto poco sotto immortalato assieme al fratello Menotti), che era in tutto e per tutto il figlio di Garibaldi al quale somigliava moltissimo, perseguì per tutta la vita, sempre e dovunque, l’Unità d’Italia come un valore assoluto e non trattabile, al quale sacrificò tutto di sé perfino i suoi sacri ideali repubblicani. Fu dunque con suo padre a Bezzecca nel 1866 durante la terza guerra d’indipendenza, fu accanto a lui il 3 novembre 1867 a Mentana nel tentativo di regalare – ancora una volta all’Italia sabauda – Roma capitale e si rammaricò quando l’età avanzata non gli permise di partecipare come volontario alla prima guerra mondiale. Ricciotti era dunque, da adulto, un vero garibaldino, generoso, ingenuo, impulsivo, spavaldo, avventuroso ed avventuriero. Eppure, io oggi lo ricordo soprattutto come un bimbetto smarrito ed infelice che piangeva tanto perché la sua mamma era morta quando lui era piccolo piccolo e perché suo padre, sempre in camicia rossa sopra un cavallo bianco, lo aveva lasciato in un collegio inglese a consumarsi di solitudine, dal momento che non poteva occuparsi di lui, dovendo “fare l’Italia”.
È dunque anche a nome di quell’antico bambino triste, vittima e ciò nonostante vero eroe del nostro Risorgimento, che ora scrivo volentieri: Viva l’Italia!