A margine di una piacevole chiacchierata nell’ambito della rubrica #extraconfine, dedicata alle storie di italiani all’estero, Remo Castellini, dottorando e docente di ‘Cultura e comunicazione italiana’ presso l’Università di Vienna, ha trovato lo spunto per un’interessante digressione sui caffè viennesi e sull’esperienza a essi legata del poeta tarquiniese Vincenzo Cardarelli, su cui Remo ha prodotti vari articoli, già usciti o in fase di pubblicazione. Con estremo piacere condividiamo le sue righe con voi.
di Remo Castellini
I caffè erano un ritrovo non solo per consumare diverse varietà di caffè, ma anche per leggere giornali e libri, conversare di politica, di psicanalisi e di arte. Ancora oggi andare ad un cafè a Vienna significa sedersi e trascorrere delle ore al tavolo sorseggiando caffè e gustando uno strudel o una Sacher, studiando, leggendo o discorrendo di politica e cultura.
Una testimonianza legata ai tipici caffè austriaci del primo Novecento è presente in una lettera che Cardarelli scrive, in uno dei suoi viaggi in Austria, a Emilio Cecchi il 18 agosto del 1922 da Graz: «Devi sapere che in questo paese nei caffè non esiste il privilegio di sedere a un tavolino da solo. Basta un semplice “Bitte”, perché chiunque ti si venga a sedere sulle ginocchia. Cosicché proprio in questo momento è accaduto a me qualchecosa di simile e perciò mia affretto a chiudere questa lettera, guardando il viso del mio vicino che non può sospettare agli accidenti che gli mando».
Dell’esperienza nei caffè viennesi di Cardarelli non ci sono purtroppo testimonianze, anche perché il poeta fece tappa per solo un giorno nella capitale austriaca nell’estate del 1928, durante il viaggio che lo avrebbe portato in Russia. Nel volume Viaggio d’un poeta in Russia, Cardarelli descrive brevemente la sua permanenza nell’ex capitale dell’Impero asburgico:
«[…] Vienna riceve luce e grazia dall’essere nell’aria del Danubio. È una città affettuosa e morbida che ci viene incontro a braccia aperte come una donna. Qui faccio sosta per ventiquattr’ore. Tutto mi sembra, nella vecchia capitale degli Asburgo, incomparabilmente più dolce, luminoso, naturale che, mettiamo, a Parigi. Intorno alla basilica di Santo Stefano m’imbatto in facce di vecchi gentiluomini andati in rovina, macerate e civilissime; e tornando la sera al mio albergo per Marienhilfestrasse [Mariahilferstraße], nell’ora che i teatri e i varietà danno fuori, è come risalire la corrente di un fiume di belle donne. Osservo che le belle viennesi hanno le gambe nude e portano i capelli alla Greta Garbo […]»”.