di Francesco Rotatori
Capita sempre più che ciò che è famoso o noto eclissi gli angoli nascosti delle nostre città, facendoci dimenticare di quella grande eredità di storia che portiamo sulle spalle.
E perciò nessuno volge la propria passeggiata al di là di Campo de’Fiori, quando invece basterebbero pochi passi per oltrepassare l’Ambasciata di Francia in Palazzo Farnese e raggiungere una piazzetta seminascosta, piazza Capo di ferro, su cui affaccia Palazzo Spada.
All’interno della struttura è ospitata, al di fuori della sede del Consiglio di Stato, la Galleria Spada, la collezione di opere del XVI e XVII secolo che fu lentamente raccolta dal cardinale Bernardino Spada (1594-1661) sin da quando, nel 1632, acquistò il complesso.
La straordinarietà di queste quattro sale al primo piano è che esse tenterebbero di presentare le opere in una sequela quale avrebbe potuto aversi nei secoli precedenti all’avvento della museologia moderna- con quei manufatti che ovviamente sono rimasti, e perciò escludendo quelli acquisiti in altre collezioni e quelli perduti e che invece nella redazione dell’inventario del 1717 figuravano tra i beni ereditati dalla famiglia del magnate-: le pitture si propongono sui muri in coppie e a seconda delle relative dimensioni giocano a occupare lo spazio dalla fascia decorata dello zoccolo sino ai soffitti variamente realizzati. La grande cura, voluta dall’azione di Federico Zeri, lo storico dell’arte già direttore del polo che si applicò affinché fosse riaperto nel 1951, espone artisti che potremmo definire minori secondo l’ottica vigente della fama contemporanea, e tuttavia all’epoca le richieste fioccavano solamente per coloro che erano additati come i più bravi, e non è raro trovare qui nature morte, scene di battaglia e paesaggi con idilli boscherecci provenienti dalle terre fiamminghe, secondo la moda vigente all’epoca.
Nella Sala III, la centrale, detta anche “Galleria del Cardinale”, figurano quattro grandi tele che cingono la stanza accanto alle sculture antiche e seicentesche (come Il Sonno di Algardi), ai tavolini e agli arredi, tra cui i mappamondi, e che dovettero fare la fortuna del vano: un Caino e Abele di Giovanni Lanfranco è nella parete di fronte alla Morte di Didone del Guercino, mentre Il Banchetto di Cleopatra del Trevisani è davanti alla copia di Campana, ritoccata dallo stesso Guido Reni che era l’autore dell’originale, del Ratto di Elena oggi al Louvre. Quattro maestri del Barocco sono qua in una luce del tutto sconosciuta, sotto le decorazioni sul soffitto realizzate da Michelangiolo Ricciolini.
Purtroppo la dimenticanza dei fruitori impedisce al museo di raggiungere il pieno potenziale, e nemmeno l’attrattiva della finta prospettiva del Borromini -nel cortile del palazzo, talmente famosa eppure paradossalmente poco vista- pare far spiccare il volo alle entrate.
Un peccato davvero, perché si rischia di sotterrare sotto coltri di polvere e nel pozzo dell’oblio un gioiello che al momento non può rilucere e nemmeno avere la propria chance di rivalutazione nella panoramica degli enti museali contemporanei.