Riceviamo da Alessandra Sileoni e pubblichiamo
L’ormai secolare attenzione della STAS verso il Pianoro della Civita – non va dimenticato che Giuseppe Cultrera, l’archeologo siciliano incaricato di istituire il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, nostro presidente e fondatore, per primo intuì che in quel luogo andava riconosciuta la sede della città etrusco-romana e che Pietro Romanelli, secondo direttore del museo archeologico, ne avviò le indagini sostenuto a livello logistico e finanziario dall’associazione, di cui era socio e consigliere – , mi costringe a esprimere il mio disappunto su quanto si sta verificando e sulle conseguenze che ne potrebbero derivare.
Tra gli interventi del convegno organizzato dalla Soprintendenza archeologica per festeggiare i 15 anni dal riconoscimento UNESCO, sono emerse all’attenzione di tutti i presenti – prepotentemente alla mia – le relazioni dei responsabili dei cantieri delle Università di Milano e di Verona alla Civita, poiché l’ardore che anima l’attività di ogni archeologo è apparso irrimediabilmente smorzato dalla mancata concessione di scavo da parte del Ministero. Vedere una studiosa del calibro di Giovanna Bagnasco Gianni, che con Maria Bonghi Jovino ha profuso un impegno costante per la ricostruzione della storia di quel pianoro, riassumere in 15 minuti oltre 30 anni di indagini e iniziative collaterali che hanno portato la nostra cittadina all’attenzione della comunità scientifica e di un pubblico internazionali, e chiudere il suo intervento con la triste consapevolezza che il lavoro di una vita potrebbe andare perso, è uno spettacolo al quale, da archeologa ma soprattutto da presidente di una associazione che promuove la conoscenza del passato e la tutela del patrimonio culturale locale, non avrei mai voluto assistere.
Premesso che non è mia intenzione fare illazioni nei confronti di alcuno, poiché la richiesta di un premio di rinvenimento è fuor di dubbio un diritto riconosciuto dallo Stato, tuttavia in tal caso sussistono prerogative di cui non si può non tener conto. In primo luogo, l’identità storico culturale della sede di una città, luogo un tempo pullulante di vita, i cui abitanti sono stati committenti e artefici di quelle opere che nel 2004 hanno portato ad inserire Tarquinia tra i siti Patrimonio dell’Umanità.
Sono gli artt. 88 e 89 del Dlgs 42/2004, vale a dire del Codice dei Beni culturali, a regolamentare le concessioni per le attività archeologiche, oggi gravate dalla mancanza di fondi ministeriali, motivo per cui la circolare n. 4 del febbraio del 2019, ha stabilito che nel caso di ricerche scientifiche programmate, la richiesta di scavo implichi la rinuncia al premio di rinvenimento sia da parte del concessionario che del “proprietario del terreno” su cui si svolgono le indagini. A tal proposito, dal 2017 con la legge n. 168, le Università Agrarie sono riconosciute come amministrazioni di diritto privato, svincolate sia dai Comuni che dalle Regioni, e dipendenti unicamente dallo Stato. Si tratta, quindi, di amministrazioni private con autonomia statutaria che hanno “in gestione” beni collettivi, in quanto destinati agli usi civici. In pratica quella su cui si vuole esercitare tale diritto è una proprietà civico-demaniale, cioè pubblica, a cui la stessa legge, riconosce il valore “identitario di una comunità”, conferendo a tali territori una forte valenza culturale.
Alla luce di tutto ciò, la richiesta del premio di rinvenimento avanzata dall’Ente Università Agraria per i reperti rinvenuti su questi cantieri appare illegittima e non solo mina le basi del riconoscimento Unesco, ma vi è il serio rischio che gli scavi alla Civita vengano interrotti definitivamente, riconsegnando all’azione devastante della natura e dei clandestini i resti della città antica. Mi chiedo se tutto ciò valga l’indennizzo per una statua trafugata e di cui non si hanno certezze sul contesto di rinvenimento, ne allo stato attuale dei fatti mai se ne avranno. Confido che tali decisioni siano state prese nell’inconsapevolezza di quelle che potevano esserne le conseguenze; confido nelle promesse degli amministratori comunali che si sono impegnati a fare quanto loro possibile per riavviare gli scavi alla Civita.
Il contributo di tali indagini alla conoscenza del passato di Tarquinia dovrebbe essere inteso come richiamo culturale e turistico ad ampio raggio. In generale il nostro patrimonio culturale è invece vittima di un diffuso pregiudizio che lo vede inadeguato a produrre una ricaduta economica immediata, pregiudizio volto a coprire l’incapacità da parte delle amministrazioni pubbliche di rispettare, conservare e soprattutto valorizzare adeguatamente quanto riportato alla luce.
Inviterei, infine, a riflettere sulla disarmante prospettiva che il termine delle ricerche scientifiche alla Civita significherebbe negare alle testimonianze di un passato che con orgoglio dovremmo sentire nostro di riaffiorare, rimanendo per sempre nell’oblio.
Il Presidente della STAS
Alessandra Sileoni