Riproponiamo, dopo il piacevole incontro di ieri all’interno della rassegna letteraria del DiVino Etrusco 2020, un articolo di Anna Alfieri del 2013, inaugurando una serie di riproposizioni di testi che raccontino i legami di Tarquinia con la letteratura e i suoi protagonisti.
di Anna Alfieri
Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone della Torretta e di Palma di Montechiaro, Grande di Spagna ma soprattutto uomo d’immensa cultura, morì a Roma all’alba del 23 luglio 1957, pochi giorni dopo aver appreso che anche la Casa Editrice Einaudi si era rifiutata di pubblicare il suo Gattopardo. Si spense, perciò, con la straziante consapevolezza che perfino l’editore da lui più stimato non aveva saputo – o ideologicamente non aveva voluto – accettare lezioni di scrittura da un aristocratico autentico e individualista, cioè da un integralista di destra considerato geneticamente colpevole di indifferenza ai problemi del popolo subalterno, alla lotta di classe, ai moti della storia e perfino alle avanguardie letterarie allora rappresentate da Hemingway e da Faulkner. Insomma, se ne andò con la dolorosissima convinzione che il suo capolavoro non avrebbe mai visto la luce e che i suoi vibranti e preziosi personaggi – da don Fabrizio Salina, il Gattopardo in persona, a Tancredi e Angelica, belli come nessun altro al mondo ma spregiudicati e arrivisti – sarebbero spariti per sempre nel nulla, come se non fossero mai stati creati.
Invece, poco tempo più tardi, Giorgio Bassani rispolverò il manoscritto perduto e lo sottopose a Giangiacomo Feltrinelli, marxista assoluto ma comunista un po’ eretico e soprattutto editore coraggioso e imprevedibile che, nel 1958, lo pubblicò. Prima duemila timide copie, poi altre duemila, poi quattromila e quattromila ancora, fino a raggiungerne, sull’onda di un successo clamoroso, parecchie decine di migliaia.
Ciò nonostante, anzi forse proprio per questo, l’intellighenzia di sinistra (allora veniva chiamata così) cominciò ad agitarsi. I suoi malumori crebbero a dismisura con il crescere delle vendite del libro, fino ad esplodere, alla vigilia del Premio Strega, in un’immane bufera; e ciò accadde quando Mario Alicata, critico letterario, ex partigiano perennemente in servizio e soprattutto responsabile della Commissione Culturale del PCI, fece ufficialmente sapere che l’eventuale candidatura al Premio in favore del Gattopardo, libro reazionario e a suo modo di vedere “maleodorante come un dente cariato”, non sarebbe stata gradita a Botteghe Oscure.
Fu un’esplosione, una battaglia senza esclusione di colpi, una guerra furiosa perfino all’interno della stessa sinistra, uno sconquasso al quale lo Strega, il Premio più prestigioso e ambito d’Italia, rischiò di non sopravvivere. Ma proprio in quel momento preciso, delicatissimo e cruciale, il nostro Vincenzo Cardarelli entrò in scena alla grande; anzi, alla grande ne uscì perché, vecchio ed esausto, morì. Morì il 27 giugno 1959 e, siccome era un poeta sublime, la sua “assenza – come avrebbe potuto dire lui stesso – tumultuò nel vuoto che aveva lasciato, come una stella”. Le armi furono temporaneamente deposte, i clamori cessarono per un po’, la litigiosa comunità letteraria italiana si racchiuse silenziosamente in se stessa e Maria Bellonci, scrittrice ma soprattutto fondatrice del Premio in questione e sua sacerdotessa officiante, improvvisamente capì.
Capì che l’occasione più adatta per salvare il suo Premio – e con lui anche il Gattopardo – sarebbe stata quella del funerale del nostro poeta. Sapeva infatti, la Bellonci, che intorno al corpo del Grande Vecchio si sarebbero presto riuniti, in gramaglie, tutti i maggiori letterati d’Italia e sperò che un eventuale ed estemporaneo, ma luttuoso dibattito sulle candidature al Premio avrebbe impedito, come in un film di Monicelli, che tra un ricordo e un requiem aeternam qualcuno (Alicata? Moravia?) trascendesse e venisse alle mani con i sostenitori di Lampedusa che in realtà non erano pochi.
La messa funebre si svolse a Roma nella Basilica di San Lorenzo al Verano, ma la camera ardente venne allestita a Tarquinia nella municipale Sala degli Affreschi, contigua alla Sala Gialla dove si tenne, ad oltranza, un Consiglio comunale straordinario presieduto da Bruno Blasi, in qualità di Sindaco della città e parente del poeta defunto. Insomma, per una notte Tarquinia divenne la capitale della cultura italiana: una notte strana, calda, lunghissima, stralunata e surreale durante la quale Donna Maria Bellonci, dama sontuosa e gentile, sussurrò agli amici scrittori parole di pace, alla luce delle candele che facevano tremolare i grandi personaggi cornetani dipinti sui muri.
Lo so con certezza, perché lì c’ero anch’io, ragazzetta attenta e curiosa, ovviamente accompagnata da mamma e papà a salutare per l’ultima volta il poeta. Una ragazzetta piena di rispetto, ma anche un po’ ardita che si azzardò perfino a firmare, tra tanti nomi forestieri e nostrani, il registro funebre. Cioè un quaderno dalla fodera rigida e nera che negli anni successivi avrei cercato invano in tutti gli archivi locali, pubblici e privati, ma del quale, in questo nostro paese nobile ma assai smemorato, non avrei trovato più alcuna traccia. E fu un peccato, perché quel volumetto nerissimo che portava perfino la mia firma quasi infantile avrebbe testimoniato che, in quelle ore strane e fatate, qualcosa di importante era accaduto accanto al corpo silenzioso del Poeta, il quale finalmente riposava nel paese dai lui amato e odiato con tanta passione.
Non so cosa si dissero i nostri scrittori, ma so che, qualche giorno dopo quella tarquiniese notte speciale, la candidatura del Gattopardo al Premio Strega, presentata da Mario Soldati, venne accettata “quasi” serenamente e so anche che, nonostante gli ultimi violentissimi colpi di coda sferrati dagli indomabili Moravia, Pasolini ed Elsa Morante che non smisero mai di opporvisi, il romanzo trionfò. A raccogliere il Premio Strega 1959 in rappresentanza del nipote defunto, al Ninfeo di Villa Giulia, c’era l’ultranovantenne zio Pietro, marchese della Torretta, “bellissimo di anni come una preziosa maiolica antica e delicata”, ultimo testimone vivente di quel mondo lontano che Tomasi di Lampedusa aveva ormai reso immortale.
Quattro anni più tardi, Luchino Visconti, conte di Modrone, comunista di ferro ma geneticamente un po’ Gattopardo lui stesso, raccolse, da par suo, il testimone e ci regalò il film bellissimo che ancora oggi onora l’Italia.
Alcune notizie di questo articolo, a parte la mia personale testimonianza, sono tratte dal volume di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, “Operazione Gattopardo, come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra” – Casa Editrice LE MANI. Recco 2013.