di Anna Alfieri
“Come in una immaginaria costellazione, sul nostro territorio esistono i segni di quattro città diverse – Tarquinia, Tarkna, Gravisca e Cencelle – che ne hanno attraversato in modo significativo la storia”. Così, più o meno, inizia un fortunato libro che, edito nel 1998 dal nostro Comune e scritto (citati in rigoroso ordine alfabetico) da Anna Alfieri, Piero Nussio e Carla Valdi, era intitolato Tarquinia Tremilannidistorie. Strano titolo che nel pensiero degli autori intendeva esprimere non solo l’inarrestabile e informe snodarsi dei millenni ma anche la vivacità degli innumerevoli eventi che di volta in volta li connotarono e, soprattutto, la specificità di questo fantastico luogo dove le ere si accavallano mentre la Storia si insinua tra palazzi vivi e città morte, tra torri severe che si rivolgono al cielo e sepolcri colorati che invece si nascondono nella profondità della terra. “Un paesaggio che – come diceva Massimo Pallottino archeologo – confonde in un solo effetto vegetazione, rovine antiche, monumenti medievali e abitazioni moderne, talchè qualche volta viene da chiedersi se questa o quella pietra sia stata sollevata da un costruttore recente, dagli uomini dell’età di mezzo, dai Romani, dagli Etruschi, dai mitici titani o da Dio”.
Delle quattro città solo l’attuale Tarquinia, che per quasi un millennio si chiamò Corneto, è vitale, vivace e piena di suoni diversi perché è il luogo dove ora noi stiamo compiendo tra gioie ed affanni il nostro personale turno di ospiti in momentaneo passaggio.
Sulle altre città, invece, già incombe il silenzio delle civiltà scomparse, delle quali solo noi tarquiniesi con i sensi affilati dal mistero, misteriosamente sappiamo percepire il lontano respiro.
La città morta più antica è la nostra grande madre Tarkna le cui rovine si adagiano sulla collina dove il divino fanciullo Tagete rivelò al mondo gli arcani dell’Etrusca Disciplina. Lì, come dice il poeta, rise l’etrusco e lì mille e mille e altri mille anni più tardi lo scrittore inglese David Herbert Lawrence, come risucchiato dalla vertigine del tempo passato, ebbe la miracolosa visione che ora trascrivo in modo integrale per non alterarne l’incanto: “Uomini dal corpo resistente, temprati dal sole e dal vento, riconducono silenziose greggi e lenti buoi dentro le porte della città e rientrano nelle loro colorate case dipinte. Qualcuno suona un flauto, qualche altro intona un canto con intima spensieratezza. Ad un tratto alcuni giovani nobili a cavallo senza sella giungono al galoppo alzando una nuvola di polvere dorata brandendo per gioco le lance, mentre un Luchmon dalla carnagione bruna e lucida e dalla barba ben disegnata, con la collana d’oro a forma di treccia attorno al collo e il mantello ornato di porpora, passa, su un carpentum, guidato da un auriga impettito. Chiuso nella sfera del suo potere ma dispensatore di conoscenze, pronuncia qualche parola. Poi, immoto nel suo scranno dorato, s’invola verso la rocca mentre la musica risuona nelle strade già buie”.
A quel tempo, a qualche chilometro da Tarkna e tutta protesa sul mare prosperava anche Gravisca, la città emporio dei greci famosa per il suo santuario dedicato ad Afrodite, Hera e Demetra, nel quale si praticava la prostituzione sacra cara ai naviganti che provenivano da Samo, Mileto, Efeso e da altri luoghi misteriosi e lontani. Dell’accogliente Gravisca ci restano lucerne, statuine, lastre di bronzo, ancore di pietra, ceramiche raffinate e reperti pregiati. Tra questi, mi dicono, anche una tavoletta votiva in cui la tenera Lenticchia Rotonda, prostituta del tempio, annunciava l’abbandono della sua professione per andare a sposarsi. Di Gravisca si conserva anche un tesoretto di 174 monete d’oro coniate al tramonto dell’impero romano, ai tempi delle invasioni barbariche. Un tesoretto che qualcuno, terrorizzato dalla ferocia dei Visigoti che stavano radendo al suolo la sua città, era riuscito a nascondere ma che non poté mai più recuperare. Ora tra le rovine di Gravisca si coglie solo lo sciabordio del mare sulle poche pietre corrose di un porto che fu glorioso e che ora non c’è più.
L’ultima città estinta della nostra immaginaria costellazione è Cencelle, anzi Leopoli Cencelle, fondata nell’anno del Signore 854 da papa Leone IV al quale un angelo apparsogli in sogno aveva indicato il luogo cornetano su cui dare asilo agli abitanti di Centumcellae che terrorizzati dalle tremende incursioni dei saraceni, vivevano ora more bestiarum, cioè come bestie nel cupo dei boschi e dei monti. Il Pontefice fece edificare case e chiese, torri e mura. Poi, lieto di tutto ciò, vestito dei suoi paramenti sacri, fece tre giri intorno al perimetro della città e la benedisse. Infine vi appose una lapide dove in bel latino si affermava che in quel luogo si poteva vivere sicuri e protetti. Per più di mezzo millennio Cencelle visse quieta, laboriosa e forse pure felice. Poi, diventate di nuovo tranquille le coste, i suoi abitanti tornarono a vivere sul mare, nella loro vecchia città che da allora si chiamò Civitavecchia. Con il passare del tempo Cencelle divenuta inutile et inhabitata crollò su se stessa e lentamente e dolcemente morì, sommersa da erbe selvatiche e da siepi di cerase marine.