di Anna Alfieri
Questa volta voglio parlare anche io del Cavaliere Milanese che, spesso circondato da succose donnine d’avanspettacolo, per molto tempo ha galvanizzato migliaia di italiani al promettente grido di “Ghe Pensi Mi” e a quello assai più categorico di “Basta la parola”, al quale si doveva credere ciecamente senza discutere.
Sì, parlerò volentieri di Tino Scotti (ma a quale altro intraprendente Cavaliere lombardo stavate pensando?), perché Tino Scotti, attore comico di grande talento e di classe sicura, emblema assoluto della milanesità ma etrusco improbabile, maremmano atipico e cornetano anomalo, sorprendentemente scelse di trascorrere gli ultimi anni della sua vita a Tarquinia, dove si spense – spero serenamente – nel 1984. E dove lasciò un buon ricordo di sé e uno spavaldo ma affettuoso autografo scritto in bronzo sulla lapide rosata della sua tomba nel settore più affollato del nostro cimitero.
Ernesto, Ernestino, anzi ‘Tino’ Scotti nacque a Milano nel 1905 da una cantante lirica, giocò a pallone – ala sinistra – nelle giovanili dell’Inter, studiò Belle Arti all’Accademia di Brera e disegnò vignette sulla Gazzetta dello Sport. Poi, affascinato dalle luci del varietà, lasciò tutto e si gettò a capofitto nell’avanspettacolo. Un’esperienza avventurosa e durissima che però fece di lui l’irresistibile Cavaliere che tutti ricordiamo: un omino pirotecnico, impettito e un po’ sbruffone, dai gesti scattanti, gli occhi mobilissimi che lanciavano saette in platea, baffi vibranti che sembravano schizzare ovunque fuoco e fiamme e soprattutto (soprattutto!) dalle vertiginose raffiche di parole stravaganti e sconclusionate sparate a mitraglia sul pubblico esterrefatto e divertito. Un’energia irrefrenabile ma scandita da tempi tecnici perfetti, che presto gli spalancò le porte della grande rivista luccicante di lustrini e profumata di Coty: venti ballerine, 40 gambe 40, quattro subrettine vestite di poche manciatine di paillettes, due primedonne di classe suprema e, in passerella, anche Franca Rame e Sandra Mondaini, allora giovanissime. Poi arrivava lui, il capocomico vertiginoso che si affrettava a declinare, tra gli applausi del pubblico, le sue generalità: “Ghe Pensi Mi, cioè Ghe il nome, Pensi il cognome, e MI come la targa milanese della sua auto”.
Poi venne il cinema, quello ridarello e semplice degli anni ’50 e, più tardi, quello più impegnato di Fellini (I Clowns), di Petri (Todo Modo) e di Bernardo Bertolucci (La tela del ragno). Col tempo venne perfino il teatro d’autore con Strehler.
Eppure ciò che rese noto il Cavaliere per mari e per monti, in campagna e città, e nei luoghi più arcaici e reconditi d’Italia fu il suo Carosello in TV. Il mitico Carosello in cui, per diciassette anni, dal 1957 al 1974, il nostro futuro concittadino pronunciò per centinaia e centinaia di volte la frase che lo rese celeberrimo e che, ormai impressa nell’immaginario collettivo italiano, suona esattamente così: “Basta la parola!”, geniale e allusivo motto pubblicitario riferito ad un confetto lassativo, ma sparato a mitraglia nell’etere quando la parola ‘lassativo’ – o, peggio, ‘purgante’ – non poteva, per censura, essere pronunciata in TV.
L’ormai famoso cavaliere scattoso e rampante apparve a Tarquinia nella seconda metà degli anni ’70 e i tarquiniesi più informati mi dicono che risiedeva all’Hotel Tarconte insieme alla moglie Tiziana, sua compagna per tutta la vita. Era, la Signora Tiziana, una donnina bionda, minuta e molto discreta che portava sempre scarpine eleganti, vestitini stirati a puntino e borsette gentili. Lui era, invece, un po’ più vistoso, forse perché sembrava sempre avvolto da una ipotetica nuvoletta di polvere di stelle e da una lieve aura di luci della ribalta. O, forse, perché il fazzoletto che gli usciva dal taschino della giacca era troppo voluminoso e teatrale per un vero tarquiniese quale era diventato. In compenso si aggirava per le strade della città, del Lido e perfino delle Saline con il garbo di un vecchio re da operetta esiliato in Riviera e con lo charme di un attore a riposo che salutava per primo i passanti e che, davanti alle signore, faceva l’inchino e si toglieva il cappello. Inoltre, mi dicono ancora i tarquiniesi di buona memoria, il Cavaliere sedeva volentieri ai tavoli all’aperto dei nostri caffè osservando i passanti con occhi cordiali. Allo Chalet Europa, al Bar Diana, al Caffè di Nada in via Umberto I dove c’è ora Danilo, oppure al Bar dello Sport in piazza Cavour dove lo stesso Danilo, allora più giovane, gli serviva il Rabarbaro Zucca. All’Impero il celebre comico prendeva elegantemente il caffè.
Io una volta l’ho incontrato al Bar di Celletti in corso Vittorio Emanuele, a sinistra salendo. Era quello un locale che mi piaceva moltissimo perché aveva un’atmosfera evocativa e un pochino retrò, per la presenza di una vecchia pubblicità rossa e blu di Cinzano che, scritta al neon nella parete dietro il bancone, mi portava lontano nel tempo. Per questo motivo, quando inaspettatamente vidi entrare il Cavaliere, così uguale a se stesso e ormai un po’ retrò anche lui, ebbi la strana sensazione di essere risucchiata all’interno di un vecchio televisore in bianco e nero dove anch’io, per una forma di improvviso estraniamento psicologico che non riesco ancora a spiegarmi, fossi diventata, per un attimo, bianca e nera esattamente come Mina quando da ragazza ancora trillava in diretta TV.
In quel periodo, era il 1984, Tino Scotti stava girando un film di Dino Risi intitolato E la vita continua. Amarissimo titolo, perché proprio in quell’anno, il nostro Cavaliere si spense.