di Anna Alfieri
Un amico, giovane e severo studioso di politica nazionale ed internazionale, mi ha regalato la fotocopia di un documento, da lui scovato chissà dove, riguardante la nostra città.
Si tratta di un foglietto di carta intestata al “Movimento Comunisti d’Italia – Sezione di Tarquinia”, datato 20 aprile 1945 e indirizzato al CLN locale, cioè al Comitato di Liberazione Nazionale, a quel tempo composto da una quindicina di partigiani cornetani, quasi tutti reduci dai fronti di guerra albanesi e jugoslavi. Il contenuto del dattiloscritto è più o meno il seguente:
“Poiché le autorità comunali, anziché promuovere il benessere della popolazione, preferiscono perdersi in pettegolezzi e beghe personali, vi invitiamo ad agire con la massima energia affinché vengano distribuiti grassi, formaggi, carne e sapone, ma soprattutto perché venga soppressa la vergognosa prostituzione che dilaga sfacciatamente nel nostro paese per l’affluire di donne che trovano il loro rifugio giornaliero e notturno a Porta Nova e negli spazi circostanti. La nostra sezione, pur non avendo suoi rappresentanti presso il vostro Comitato, vi assicura il suo appoggio materiale e morale, ma qualora non venissero da voi adoperate tutte le energie necessarie alla soluzione di questo vergognoso problema, formeremo noi stessi delle squadre che agiranno per proprio conto e faranno pulizia da sole. Distinti saluti”.
Segue una firma lunga, svolazzante e purtroppo indecifrabile. Ammetto che inizialmente questa colorita missiva mi ha sbalordita e divertita. Mi ha sbalordita perché non avrei mai immaginato che, nel 1945, alcuni tarquiniesi di estrema sinistra fossero pronti ad organizzarsi in ronde antiprostituzione e mi ha divertita perché, in fatto di paesano meretricio, ho pensato che gli indignati comunisti tarquiniesi si riferissero banalmente a qualche nostrana “Monella”, vispa come quella di Titta Marini,
che sta a pensione dalla zi’Fermina
e cià sempre sulla porta un’ottantina
di giovani che fanno a zepparella.
Ognuno spinge e la vo’ stringe al cuore
e in tasca molti spiccioli il mio amore.
Solo più tardi, mi sono resa conto con grande amarezza che la descrizione di Titta – nitida e semplice come la sequenza di un film neorealistico di tipo bonario – non era adeguata alla drammaticità, alla miseria materiale e morale e all’umiliazione nella quale era immersa, nel ’45, l’Italia liberata, perché le donne di Porta Nova, degli spazi bui tra le chiese della Trinità e di S. Francesco e dei piccoli bordelli a cielo aperto sparsi qua e là per la nostra campagna, non erano caserecce “monelle” locali, ma “Segnorine” forestiere, ballerine di boogie-woogie, giunte al seguito della Vª trionfante Armata liberatrice del Generale Clark: povere ragazze, pronte a tutto, non si sa se istupidite o infurbite dai patimenti, dalla fame e dalla disperazione, risucchiate dai carri armati e dalle jeep dei vincitori, in un polveroso vortice di sigarette americane, di cioccolata, di chewing gum, di cibo nordamericano inscatolato “Spam” con il quale sfamavano intere famiglie, soprattutto di facili dollari.
A Tarquinia – mi dicono – gli Americani erano accampati nella Bandita di San Pantaleo, in due ben distinte tendopoli: una per i militari di pelle bianca, l’altra per quelli di pelle nera, in perfetta apartheid che, però, non riguardava – nemmeno per assurda ipotesi – il colore delle donne italiane, che erano tutte e indistintamente bianche, meglio se bionde naturali per i negri che pagavano di più se trovavano sul loro corpo “qualcosa di chiaro e di dorato”. Le truppe brasiliane di terra stanziavano invece non lontano dal Cimitero; i Marocchini al comando di ufficiali francesi stavano al Voltone, mentre i Canadesi, gli Australiani e un po’ di Inglesi risiedevano qua e là, in luoghi che nessuno ha saputo precisarmi. Quanto a me, per capire cosa fosse stata, e quanto amara, la prostituzione nell’Italia vinta ma liberata, ho scelto come lettura estiva un romanzo crudele: La Pelle di Curzio Malaparte ed è stato come scendere agli inferi, in un viaggio che mi ha riempito di orrore, di commozione e di umana pietà.
Ma chi erano, quanti erano, come agivano, dove si incontravano quei Comunisti d’Italia, Sezione di Tarquinia, che usavano carta intestata e che volevano organizzarsi contro le prostitute di Porta Nova? Nessuno, tra le tante persone alle quali ho chiesto notizie, ha saputo rispondere con precisione a queste domande, come se molti ricordi fossero stati già da tempo volutamente cancellati dalla memoria collettiva locale.
Eppure, il Movimento Comunisti d’Italia, detto anche “Bandiera Rossa” dal nome del suo giornale, per lunghi mesi aveva rappresentato il gruppo più attivo della Resistenza Romana ed era stato numericamente superiore a tutte le altre formazioni partigiane del Lazio. Era nato a Roma dove agiva, al di fuori del controllo del CLN e in contrasto con il PCI di Palmiro Togliatti e si era esteso prima nelle periferie proletarie della capitale, poi nel viterbese e, infine, anche a Tarquinia. Scomparve nel 1946, quasi senza lasciare tracce di sé, come condannato ad una damnatio memoriae sulla quale solo adesso, doverosamente si sta facendo un po’ di luce.
E dire che il Movimento aveva pagato un pesantissimo tributo di sangue alle Fosse Ardeatine, dove vennero trucidati ben 68 suoi iscritti. Tra questi, Aladino Govoni, Capitano dei Granatieri di Sardegna, Medaglia d’oro al Valor Militare, figlio di Corrado Govoni, uno dei più noti poeti del nostro ‘900. Sì, Aladino Govoni “così bello, così giovane, così ridente” che aveva avuto il compito di coordinare tra loro le Sezioni del viterbese e che, per questo motivo, aveva forse frequentato anche la nostra città. Con chi parlava a Tarquinia, Aladino Covoni? Dove si fermava, quali strade percorreva, quali case frequentava? E cosa scrisse, sulla “Fossa Carnaia Ardeatina” dopo l’uccisione di quel suo figlio “bellissimo”, il vecchio padre poeta? Scrisse un insostenibile grido di dolore, un poemetto disperato, che ora ho letto anch’io e che, ancor più de “La Pelle” di Malaparte, è stato come una frustata sul viso. Tutto questo, a Ferragosto!