di Anna Alfieri
Giacomo E. Carretto, scrittore e noto esperto di storia e letteratura turca, aveva scelto di vivere a Tarquinia in una grande casa stracolma di libri onniscienti, costellata di cioccolatini sparsi qua e là per gli amici golosi e profumata dalle magnolie di un giardino interno e segreto. Discendeva da una famiglia di magistrati liguri imparentata con Sandro Pertini e dai cornetani Cardini, i nobili committenti della fantasiosa cappella barocca della nostra Chiesa di san Francesco. E forse nella sua consapevolezza di questa lontana ascendenza, nel 2004 scrisse, a Tarquinia e per Tarquinia, un bel libro intitolato “Falce di luna: l’Islam, Roma, l’Alto Lazio e altre cose ancora” che ci rivelò alcuni misteri del nostro passato che, senza di lui non avremmo mai conosciuto. Infatti Giacomo era un intellettuale autentico e raffinato, capace di assorbire l’intera cultura dei luoghi in cui viveva, di reinterpretarla con originalità e sapienza per poi restituirla rigenerata, arricchita e perfino più fascinosa e intrigante di prima.
Una volta, sicuro che mi sarebbe piaciuto e che, anzi, mi avrebbe ispirato un raccontino d’amore, mise a mia totale disposizione l’intera corrispondenza intercorsa tra suo nonno paterno, giovane pretore di prima nomina a Villalba in Sicilia, e la sua fidanzata lontana che io immaginai subito bellissima e bruna.
Si trattava di antiche lettere che, legate da un nastrino di velluto color amaranto, conservavano, oltre le parole, anche piccoli e amorevoli fiori di campo ormai essiccati dal tempo. Lettere che, scritte nella straziante solitudine di una camera in affitto in Sicilia, parlavano di ricordi e nostalgie, di speranze e progetti, di pensieri tenerissimi e di sensualità tumultuosa. Un erotismo dannunziano che il ragazzo tentava invano di imbrigliare trascrivendo, quasi per prenderne le distanze, i versi non suoi delle più belle romanze di fine ottocento.
Vorrei baciare i tuoi capelli neri,
le labbra tue e gli occhi tuoi severi.
Vorrei morire con te, Angel di Dio,
o bella innamorata, tesor mio.
Tra queste parole complici e appassionate trasparivano però – sebbene appena accennati – i duri dettagli della sua vita di magistrato coraggioso, troppo spesso costretto ad aggirarsi a cavallo nelle sterminate campagne di Villalba per amministrare la giustizia in un ambiente ostile, omertoso e intimidatorio dove a decidere le cose c’era solo la voce della lupara.
Giacomo Carretto morì nel 2015 e, per sua volontà, tutti gli incartamenti di famiglia, comprese le lettere d’amore, vennero riconsegnati ai rispettivi parenti di riferimento. Ma io quelle lettere custodi di piccoli fiori di campo ancora lievemente colorati, quelle lettere che non potrò più rileggere, non le ho mai dimenticate.
Infatti ieri, ascoltando per caso Enrico Caruso che cantava “Vorrei baciare i tuoi capelli neri”, mi sono commossa e, come risucchiata da una strana nostalgia, ho sentito il bisogno di visitare virtualmente Villalba dove, però, ho trovato una sorpresa. Sì, perchè a Villalba, proprio a Villalba, nacque, visse e morì don Calogero Vizzini (1877-1954), che nell’immaginario collettivo, nella leggenda, nel mito e a volte anche nella storia viene ormai considerato il capo dei capi di tutta la mafia siciliana nel mondo. Cosa nostra. Quel don Calò implacabile brigante domato, in era fascista, solo dal pugno del prefetto di ferro Cesare Mori. Quel don Calò che nel ‘43 riemerse dal confino più potente di prima quando, su indicazione di Lucky Luciano, venne assunto dall’esercito americano per agevolare in modo determinante lo sbarco degli alleati in Sicilia. Quel don Calò che fino all’ultimod ei suoi giorni inseguì il sogno di una Sicilia resa indipendente dall’Italia e trasformata in uno degli Stati Uniti d’America, il più mafioso. Infine quel don Calò che con indiscutibili coincidenze cronologiche dovette sicuramente misurarsi più volte con il nostro giovane pretore innamorato. Occhi negli occhi, ostinazione contro ostinazione, l’ordine della legge contro l’ordine malato e tentacolare della mafia.
Ma a questo punto, un po’ turbata perché il parlare di mafia porta lontano, interrompo questo articolo che avrebbe voluto raccontare solo una lontana storia d’amore e che, quindi, articolo non è. E lo concludo in fretta, senza nemmeno rileggerlo perché sul mio PC sto già facendo scorrere i titoli di testa di un vecchio film di Pietro Germi, “In nome della legge” (1949), il cui protagonista, un pretore disarmato in un’arcaica città siciliana armata da molte lupare, ha il volto bello e ancora giovanile dell’attore Massimo Girotti.