Storia di una lapide fascista a Tarquinia

La Bandiera Testa Mora nella lapide “tarquiniese” all’interno della Chiesa del Monastero della Passione

di Anna Alfieri

Come avrebbe potuto dire anche Forrest Gump, la storia di una piccola città è come un cestino di frutta, nel quale una ciliegia tira l’altra. Infatti io stessa prima ho raccontato su “L’extra” che la madre di Napoleone Bonaparte era stata sepolta a Corneto, poi ho aggiunto che anche uno zio dell’Imperatore venne tumulato nel nostro paese, ed ora sento il bisogno di parlare perfino della lapide che, nella chiesa delle Monache Passioniste in via Garibaldi, testimonia la veridicità di quegli storici eventi. Una strana lapide connotata, in alto sopra la scritta, dalla enigmatica immagine di un giovane nero e bendato che, non appartenendo all’iconografia tradizionale cornetana, né a quella napoleonica e nemmeno alla storia passionista della Chiesa che ora la ospita, da bambina mi faceva pensare alla tratta degli schiavi e alle navi negriere.

Ora so, invece, che l’effige di quell’uomo con la benda sugli occhi ha un nome, una storia e perfino un buon motivo per trovarsi fra noi. Infatti, anche quando non sventola su un drappo ma è incisa nel marmo, essa, l’immagine, si chiama Bandiera Testa Mora ed è l’emblema della Corsica Nazione e Regione.

Nella prima metà del ‘900, la Bandiera Testa Mora fu anche l’icona ufficiale del Movimento Irredentista Italiano in Corsica che denunciava con forza l’estraneità dell’isola alla nazione francese e proclamava a gran voce la sua naturale appartenenza all’Italia, per posizione geografica, per lingua, cultura, tradizioni e per diffuso sentimento popolare.

Il Movimento, nato in modo autonomo in Corsica nel 1919, venne poi adottato dall’Italia fascista, sostenuto da Mussolini e abilmente orchestrato da Galeazzo Ciano, suo Ministro degli Esteri, che profuse una grande quantità di energie e di denaro per finanziare un Comitato di propaganda presieduto da Francesco Guerri, fondatore e direttore della rivista “Corsica Antica e Moderna”.

Ebbene, Francesco Guerri (classe 1874) – umanista di fama nazionale iscritto dal 1924, con lo pseudonimo di Minuto Grosso, all’Associazione “Corsica” allora ancora segreta e autore del libro “Gli anni e i fatti dell’Irredentismo” – era un tarquiniese verace, innamoratissimo della propria città. Uno studioso passionale ed instancabile che cercò, trovò, interpretò e accorpò nella raccolta “Fonti di Storia Cornetana” i più preziosi documenti del nostro passato, proprio quando essi, sparsi qua e là in indicibile disordine e degrado, erano sul punto di andare dispersi per sempre. “Un’impresa ardita, degna di forze superiori alle mie, – scrisse – ma l’amore per Corneto, l’amore immenso per la mia diletta terra natia, mi porta ad affrontarla. E per quanti difetti potranno venire dal mio operato, a me resterà il conforto di aver tentato di far giungere ai miei concittadini un’eco seppure lontana della nobiltà e della fierezza dei nostri antenati”. Fu proprio durante queste ricerche che il Nostro scoprì, inaspettatamente nelle carte dei Capitoli del Convento Passionista e della Cancelleria Vescovile, i verbali relativi alla sepoltura in Corneto di Letizia Bonaparte e fratello. Evento clamoroso e suggestivo sul quale, nonostante qualche paginetta già scritta in proposito da Luigi Dasti, a Tarquinia era caduto da tempo l’oblio. Guerri invece ne rimase folgorato e, consapevole che la sua scoperta collegava Corneto alla grande epopea napoleonica in Europa e nel frattempo accostava idealmente Tarquinia alla Corsica, ottenne che nella Chiesa delle Passioniste venisse posta, a nome e a spese del Movimento Irredentista, una lapide con la Bandiera Testa Mora ben in vista, e con una scritta che lui stesso si incaricò di comporre. Scritta nazionalista, ardita e provocatoria nella quale, per patriottico puntiglio fascista, Napoleone – francese Imperatore dei francesi e simbolo assoluto della grandeur d’oltralpe – venne disinvoltamente definito “un grande Italiano”, e la parola “Buonaparte” fu scritta con la “u” nella prima sillaba, nell’arcaica versione italiana che “l’empereur” aveva sempre rinnegata.

La lapide fu scoperta, in un tripudio di camicie nere e di saluti romani, il 4 novembre 1933, XII anno dell’Era Fascista e quindicesimo anniversario della vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale. Giorno enfatico ed eroico nel quale il Podestà di Tarquinia, Conte Giovanni della Rocca di Candal, concluse il suo discorso con una frase di Giuseppe Garibaldi che tutti credettero – ne ho precise testimonianze – scritta dal Duce in persona: “La Corsica e Nizza – scandì il Podestà/Conte con voce mussoliniana – non debbono appartenere alla Francia e verrà un giorno in cui l’Italia, conscia del suo valore, reclamerà a ponente e a levante le sue province che vergognosamente languono sotto la dominazione straniera”. (Applausi).

Nei giorni successivi, Francesco Guerri parlò di questi avvenimenti sulla sua rivista “Corsica Antica e Moderna” (stampata a Livorno, città-feudo di Ciano, in 70.000 copie per quanti erano ormai gli scritti al Movimento) e descrisse Tarquinia come un luogo magico e sacro idealmente congiunto all’isola fatale. “Tarquinia – scrisse ripetendo più volte il nome della nostra città – Tarquinia ha singolari rassomiglianze negli usi e nei costumi popolari dei Corsi e perfino qualche peculiarità del dialetto simile alla lingua isolana. La campagna di Tarquinia è la campagna còrsa, e da Tarquinia si vede l’azzurra distesa del mare che congiunge Porto Clementino a Bastia. Inoltre, nei bei tramonti di fuoco, specialmente dall’alto del Palazzo del Cardinal Vitelleschi, da Tarquinia si scopre e si ammira, massa cupa e severa all’orizzonte, l’Isola Bella, l’isola di Pasquale Paoli e di Napoleone”.

Tarquinia, 1935: foto di gruppo dopo la visita al Monastero della Passione. Da sinistra, Dorindo Proli, Giordano Celli, la signora Guerri, Nerino Bertazzoni, Santu Casanova, Francesco Guerri, Vincenzo Cardarelli e Medoro Chiavarelli.

Sull’onda di questi emozionanti richiami, nel 1935 giunse a Tarquinia, in commosso pellegrinaggio, uno dei padri fondatori del Movimento Irredentista, lo scrittore in lingua còrsa Pierre Tuissant Casanova, alias Santu Casanova, il mitico e vecchio Ziu Santu accolto con grande rispetto da molti irredentisti locali e accompagnato alla lapide bonapartista da Francesco Guerri in persona. A fare gli onori di casa c’era perfino Vincenzo Cardarelli, venuto appositamente da Roma in abito primaverile e con un fiore all’occhiello. Sì, perché se era vero, come era vero e accertato, che nel ’35 Cardarelli era fascista, è altrettanto vero che in quella fausta giornata, sfoggiò, al posto del distintivo, una bella rosa di maggio. Forse perché era un poeta o forse perché, a quei tempi, era anche un po’ “dandy”.

Epilogo

Tra il 1942 e il 1943 l’esercito italiano occupò militarmente la Corsica con 83.000 uomini del VII Corpo d’Armata che mantennero il controllo del territorio senza incidenti di rilievo. Finita la guerra, il Tribunale per la difesa del suolo francese processò a Bastia gli irredentisti più accesi. Alcuni furono condannati a morte, altri scontarono lunghi anni di carcere, altri ancora morirono in esilio.