di Marco Vallesi
In geometria dei solidi si direbbero “prismi retti a base quadrata”; in architettura, “torri”. Prismi molto snelli, alti, anzi altissimi. Ed è proprio grazie alla “rettitudine”, perfettamente rispettata grazie ai lunghissimi fili a piombo che le maestranze medioevali devono aver usato, sono lì, ancora in piedi e svettanti sui tetti del centro storico tarquiniese e sulla collina.
La sfida alla gravità che rappresentano con quella affascinante commistura di eleganza ed austerità mi ha sempre affascinato, forse più di quanto abbiano fatto gli altri pur cospicui monumenti del territorio. Ogni volta che camminando ne incontro una, di quelle che ti offrono uno spigolo per strada, non resisto allo stimolo di appoggiare un occhio, come si fa con il mirino di un fucile, per traguardare quel filo che corre dritto verso il cielo in cui si perde.
E così, quell’enorme canna di pietra diventa strumento di riflessioni e pensieri, di contemplazione e interrogativi. C’è da dire che il mio affetto per queste strutture slanciate è costituito, in massima parte, da una generale curiosità sul perché tanta abilità e ingegno siano stati riversati su queste icone verticali che sembrano, così come ci son state raccontate, fini a se stesse o, al limite, a rappresentare il potere del committente.
Certo è che stiamo parlando delle torri vere e proprie ossia quelle che non sono campanili o fortificazioni – detti maschi – lungo la cinta muraria. Quelle, cioè, che si trovano concentrate nell’area del centro storico posta, salendo, a sinistra del corso Vittorio Emanuele. Stando a fonti comunali del 1878 riportate in “CHIESE,PALAZZI E TORRI DELLA CITTÀ DI TARQUINIA” curato da Bruno Blasi, “ne risultarono ben 38”.
E chissà se questo numero sia, in effetti, quello giusto per contare, tra quelle integre, quelle ammezzate o dirute, quelle inglobate in altre strutture edilizie, tutte le torri che vennero elevate in un periodo storico abbastanza breve e, comunque, precedente l’ampliamento della cerchia delle mura corrispondente all’attuale.
In realtà, il numero delle torri che spiccavano la loro altezza sulla Corneto dei secoli antecedenti il Rinascimento, doveva essere senz’altro molto più elevato. Numerosi rinvenimenti di fondamenta di torri “estinte” sono stati evidenziati durante vari lavori pubblici, di posa in opera della rete del gas o di pavimentazione stradali che pochi anni fa hanno interessato gran parte del centro storico.
Un paio di queste, ad esempio, in prossimità del Duomo; una proprio nel sagrato, appena alla base della scalinata e di fianco ad un’altra struttura edilizia rivelatasi una porzione, destinata all’uso di cucina per l’evidente piano di cottura – con tanto di fornelli e focolari – di un più ampio edificio; l’altra con base molto grande, proprio dietro il Duomo, allineata con l’abside della cattedrale.
A parte queste brevi note e poca altra vaga letteratura, occorre ammettere che, dal punto di vista storiografico, le belle torri cornetane siano state un po’ trascurate. Di esse non ci giunge notizia alcuna, se non estremamente sommaria, sulle tecniche, sui criteri edilizi con i quali vennero costruite né sappiamo se qualcuno si sia mai preoccupato di stabilire, scientificamente ma anche deduttivamente, se l’altezza di questi edifici sia stata o meno la massima raggiungibile per la resistenza del nostro macco, particolarissima e gradevolissima pietra locale.
Eppure, una così grande quantità di edifici, estremamente simili tra loro da sembrare repliche l’uno dell’altro, la mole di lavoro necessaria per edificarli, i materiali, le maestranze e, in buona sostanza, l’economia necessaria a tirar su migliaia e migliaia di metri cubi di pietre e calce qualche interrogativo o riflessione non banale avrebbero pure potuto suscitare. Così come il ristretto periodo di tempo in cui tutte si innalzarono a incrociare le rotte delle rondini e a far da nido alle cornacchie, avrebbe pur dovuto sollecitare qualche interesse un poco più ficcante e chiarificatore almeno sull’economia del periodo.
Ciò che invece sembrano abbondare sono le attribuzioni di funzione di tali strutture. C’è chi le vuole come “torri d’avvistamento” e chi come puri “simboli del potere di antichi casati”. Dal mio personale punto di vista trovo esagerata e fuorviante l’ipotesi che le torri siano state edificate con il precipuo scopo di essere postazioni di avvistamento poiché a svolgere una simile funzione ne sarebbero bastate un numero esiguo e non la cinquantina che si possono immaginare, fitte fitte, a presidiare il centro storico ante XIV secolo.
Meno fantasiosa la seconda ipotesi che identifica la torre come simbolo di un potere economico; intanto per le risorse necessarie alla costruzione, poi per quella che, a mio avviso, è la più logica delle ipotesi a cui si può riferire anche questa seconda.
Osservando attentamente la struttura delle torri meno danneggiate o manipolate da interventi finalizzati al riuso, si può notare che esse presentano delle comuni peculiarità del tutto assimilabili a quelle di strutture fortificate e quindi atte a resistere ad eventuali aggressioni. Queste particolarità sono, partendo dal basamento: l’alta fascia di conci bugnati realizzati in pietra travertinosa (o travertino vero e proprio) molto più duro e resistente del locale macco; l’ingresso ricavato sulla parete bugnata, centinato con precisi, ampi e profondi conci dello stesso materiale delle bugne, così piccolo e stretto da lasciare il passo ad una persona per volta; poche e strettissime feritoie verticali disposte a varie altezze sulle facciate; pochissime strette finestre, talvolta una per facciata ma a partire da una certa altezza, una di queste sempre posizionata altissima, spesso sotto quello che doveva essere il solaio-terrazzo della struttura, perfettamente verticale sull’unico ingresso della torre; in alcuni casi e ove ancora presente, una merlatura tutta intorno la sommità.
Ecco, questo ci conduce direttamente all’ipotesi che le torri fossero, in realtà, dei potenti e resistenti forzieri da usare in tempi critici dalle famiglie che le fecero edificare. Facilmente difendibili per ogni tipo d’aggressione o di spoglio, all’interno vi si potevano ammassare, sui numerosi piani in legno collegati da botole e scale, derrate alimentari e ricchezze mobili, così come persone e strumenti di difesa.
Con un minimo di immaginazione possiamo ricreare una possibile scena di attacco alla torre e, di conseguenza, la sua difesa. Possiamo quindi vedere gli aggressori stazionare davanti all’ingresso mentre uno di essi, proprio da singolo individuo ammissibile nell’angusto spazio, tentando di armeggiare con qualcosa per forzare la robusta porta, riceve sulla testa, pure protetta da qualche sorta di elmo, un semplice sasso di un paio di chili arrivato giù dritto dritto essendo stato lasciato cadere da trenta metri d’altezza e, per giunta, da una mano che si è sporta appena 20 centimetri dalla finestra soprastante; riuscite ad immaginarne l’effetto?
Oppure riuscite vedere quale inutile sorte avranno le frecce degli archi o i dardi delle balestre quando finiranno inerti e sfiancati dalla salita verso la sommità della torre che non riusciranno nemmeno a raggiungere? E della facilità con la quale i difensori, protetti dai merli e potenziati dalla gravità, possono scagliare ogni sorta d’oggetto in basso causando danni ingenti senza soffrirne a loro volta, cosa si può dire?
Insomma, anche se con la fantasia, la presenza di questi slanci architettonici può ancora incuriosirci e meglio ancora sarebbe se qualche studioso di buona volontà volesse, senza nulla togliere all’aura di mistero che s’innalza con lo sguardo a seguirli, renderci un poco più consapevoli di tanta bellezza.