Realtà, Realismo e Iperrealtà

di Francesco Graziosi

Edgar MuellerA metà degli anni ‘70 vidi una mostra di Iperrealisti a Parigi.

Le Halles erano un cratere nel cuore della città, con ancora una corona, su tre dei quattro bordi, dei vecchi edifici dei mercati ottocenteschi in demolizione.

Non c’era ancora il Centre Pompidou e la mostra era nella sede di allora, alla Galerie d’Art Moderne

La galleria si sviluppava su due piani.

Al pian terreno erano ospitate diverse tendenze dell’attualità di allora.

Sculture, installazioni, quadri…

Si saliva una scalinata per accedere alla sezione Iperrealismo e arrivando in cima si intravedevano già alcune opere nelle sale che si aprivano sui lati del camminamento.

In una di queste si vedeva appeso un giaccone di pelle nera.

Da lontano l’effetto era assolutamente ingannevole.

La tecnica era quella della pittura a aerografo, allora tecnologia avanzata, e il risultato impressionante per efficacia.

Lo trovai interessante divertente, ma non mi entusiasmò.

Però innescò una serie di riflessioni sull’apparenza.

“Ciò che sembra vero”

“l’apparenza del vero non è il vero”

“i sensi sono ingannabili, ma non possiamo prescinderne per indagare essendo”

“esiste un vero linguaggio e un linguaggio del vero, ma non corrispondono”

“la ricerca del vero non si soddisfa nella visione del reale, ma nella coscienza della visione”

Nell’opera d’arte il pedissequo richiamo all’apparenza delle “cose” è un esercizio vuoto, inutile.

L’arte vuole interpretazioni della realtà, non solo echi.

Il ricordo di Parigi in quel viaggio sovrappone per me quel quadro allo sventramento delle Halles.

Quell’immenso cantiere, che scavava ancora verso profondità viscerali della città, aveva una forza, una brutalità, al cui fascino non ci si poteva sottrarre, nonostante, o forse ancor di più, perché era anche un lutto, un dramma, una morte.

I vecchi mercati venivano sacrificati, anche per ragioni igieniche, alla crescente modernità della Parigi che si progettava verso il futuro che oggi è presente, Beaubourg, Musée d’Orsay…

Questa condizione faceva sì che quel buco avesse un effetto emotivo e significati enormi, struggente e simbolico, spettacolare e intimo. Il tempo e l’uomo che progetta il futuro realizzandolo.

La potenza insostituibile del vero.

Non è un caso se Marco Ferreri vi girò “Non toccare la donna bianca”, un western surreale e magnifico. Lui aveva visto un canyon, una vallata in quello sprofondo artificiale. Scrisse di getto la sceneggiatura, chiamò attori altrettanto pazzi da gettarsi nell’impresa di girare una specie di istant-movie ante-litteram.

Bellissimo.

Iperrealismo ha poi trovato un media ideale con le immagini virtuali, dove veramente non c’è differenza tra illustrazione e foto. Photoshop ha “democraticamente” annullato le differenze.

Nell’incontro con l’arte contemporanea il neofita ha quasi sempre un turbamento nel “non riconoscere” ciò che vede.

Si tratta di un “pregiudizio”, che vorrebbe “ritrovare” almeno l’eco della visione della realtà fenomenologica conosciuta.

L’idea che l’arte debba essere un “bel disegno” del conosciuto è, ovviamente, un concetto sbagliato, ristrettivo, a-storico, incolto.

Preconcetto talmente forte che confonde realismo e naturalismo, fino a perdere, involontariamente, il senso stesso del “reale”.

Per capirci, i milioni di visitatori della Cappella Sistina sono convinti di “capire” quel che vedono perché riconoscono “figure”. La stragrande maggioranza degli stessi, davanti alle “Tele di sacco” di Alberto Burri direbbero che non lo capiscono.

Qui il paradosso raggiunge l’acme.

Il linguaggio simbolico e iper simbolico di Michelangelo è impenetrabile se non se ne conosce il codice, quell’universo simbolico proprio del periodo, che vedeva come qualità di un’opera anche il linguaggio settario, da adepti. Una comunicazione subliminale comprensibile solo a pochi “eletti”.

La realtà palese di Burri invece sfugge a quella immediatezza quasi brutale dell’evidenza.

Basterebbe il senso empatico con la “materia” dei sacchi per viverne l’emozione, “sentire” e “sentirsi” in essi.

Invece si ricerca un senso illustrativo, rappresentativo, il rimando a un “oggetto” preesistente, mentre l’opera stessa si offre come reale, dichiarata ed evidente. L’abitudine al linguaggio simbolico.

L’iperrealismo in qualche modo cercava di coniugare le due cose, ma con uno sbilanciamento che rafforzava l’idea, ancora impressionista, del rimando a una realtà al di fuori dell’opera.

L’arte materica, che tenta di far “parlare” il reale, invece si offre come oggetto “in sé” e tutto ciò che emotivamente e culturalmente ne consegue non richiama altra realtà, non è “impressione della realtà”, ma “espressione reale”.

Una poesia del vero che è nella realtà sensoriale dell’uomo.

Come sostiene Foucault è solo dal ‘600 che l’uomo ha iniziato a distinguere il linguaggio dalla natura. Quindi significa che in assenza di conoscenza e di coscienza gli uomini sovrappongono le idee alle cose e gli riesce difficile uscire, anche per poco, da questa logica.

Non è un caso proprio il ‘600, il secolo del Barocco.

Giochi ottici, lo stupore, la meraviglia dell’effetto come qualità primaria della poesia e delle arti in genere. Proprio per la coscienza di poter “inventare” la realtà. Questo processo è conseguenza del pensiero contro-riformista, che in sostanza diceva “Voi credete di intendere la voce di Dio, ma senza chi vi guidi e spieghi, sarete ingannati, non capirete”. Il Barocco è stato un gioco serissimo.

Del resto l’apparenza era stata già soggetto fondamentale nei greci. Il monito platonico a diffidare dei sensi, portò alla coscienza delle distorsioni e questa alle correzioni ottiche dell’architettura. Non importa se il fusto della colonna sia realmente una riga dritta, l’importante è che “sembri” dritta, che comunichi la sua, diciamo così, “drittità.

Il Trompe l’oil era, è, anche esso un rapporto che vorrebbe essere “più che realista”, ingannevole appunto.

Può sembrarci strano oggi pensare che veramente un dipinto possa emulare la realtà, insomma oggi difficile ci si inganni proprio. Ci lasciamo ingannare semmai.

Il cinema 3D un po’ riesce a illuderci, ma dopo pochi minuti di visione il film torna a essere quello che è sempre stato, perché in realtà interpretiamo tridimensionalmente anche i film normali.

Ci stupisce pensare allo spavento dei primi spettatori cinematografici all’arrivo del treno del famosissimo film dei Lumiere.

Eppure era paura vera, l’inganno perfettamente riuscito.

L’idea della realtà vinceva sulla realtà stessa.

L’idea della realtà vince sulla realtà stessa.

Quindi realtà, realismo, iper-realismo alla fine si risolvono nella sede del pensiero, dove si decide a priori il senso della percezione.

Comunque l’arte ci parla di noi, ci dice come siamo, come “funzioniamo” e, nei suoi momenti più alti, ci tocca fino all’emozione, al sentimento.