di Piero Nussio
Quando il professor Gatano Fichera, esimio matematico, entrò nell’Aula Grande dell’Istituto di Matematica dell’università La Sapienza a Roma, si dovette per forza accorgere che era gremita in ogni ordine di posti. E comunque se ne accorse quando l’aula intera cominciò a rumoreggiare: «Qui mi state trattando…» «come uno stronzo!» completò uno studente rimasto anonimo, ma dotato di una presenza di spirito e di un tempismo non comuni.
Fu così che il professor Gaetano Fichera dovette cedere, nel glorioso ’68, ad una delle prime e più significative contestazioni che cominciavano a mettere in difficoltà i “baroni” che spadroneggiavano all’Università. E fu elegantemente ripagato dell’afflato didattico che metteva nelle sue lezioni, nel nozionismo degli esami e nella chiarezza delle sue dispense. Il suo corso di Analisi matematica, destinato agli studenti del primo anno, cominciava a riga 1 di pagina 1 con “Teorema 1.1” e relativa dimostrazione formale, mettendo in difficoltà gli ignari studenti, che non sapevano né come né perché si fossero venuti a trovare con tanta algida stupidità solo per il piacere di praticare la scienza.
Altri professori, di ben altra levatura, si facevano fotografare nella prefazione mentre suonavano i bongos, e si sforzavano di far capire meglio che potevano (con chiarezza e con esempi d’ogni genere) l’astrusa scienza che avevano deciso di insegnare. Ma stavano oltre oceano, sfortunatamente. Anche l’esimio prof. Gaetano Fichera era nato al di là del mare, ma si trattava solo dello Stretto di Messina, ed era stato facile per lui attraversarlo con tutta la sua boria a corredo.
Il poeta Salvatore Quasimodo era nato anche lui al di là dello Stretto di Messina, e pure lui l’aveva attraversato, approdando alla foce del Tevere. A differenza di Fichera, però, non conobbe subito le dorate strade della baronia universitaria, ma fu addirittura per parecchi anni “costretto a lavorare” in giro per l’Italia al Genio Civile. La sua baronia, come la sua preparazione classica, erano parecchio “virtuali” (si direbbe oggi), e quella sua ansia di conoscere, sapere ed esprimere che l’ha portato dal lavoro tecnico alla grande poesia sarebbe un comportamento molto lodevole: un perito tecnico che si fa poeta lirico e traduttore di autori classici rappresenta un esempio importante da raccomandare ai ragazzi d’oggi, troppo “virtuali” per essere “virtuosi”.
Ma come fa una persona, per di più un grande poeta lirico, che ha raggiunto la fama così faticosamente e partendo da una situazione difficile, a dimenticare tutte le difficoltà che ha superato ed a mostrare tanta sciocca vanagloria?
Procediamo, però, con ordine e seguiamo gli eventi e lo scorrere del tempo. Il professor Fichera (il matematico) era nato nel 1922, Salvatore Quasimodo nel 1901: ad entrambi dunque era stato dato in sorte di attraversare la barbarie del fascismo. Il professor Fichera era in età di fare il soldato quando – dopo l’otto settembre – i repubblichini imposero a tutti i ragazzi di arruolarsi con l’alleato nazista. Fichera non lo fece, ma nemmeno scelse di darsi alla macchia e diventare partigiano. Pensava di cavarsela a mezza via: fu catturato dai tedeschi e condannato per diserzione. Lo salvarono dalla prigione gli americani nel ’44 e tornò così libero, ma sempre ricordando che i nazisti l’avevano condannato a morte. Era questo il seguito della sua frase «Qui mi state trattando…» che non riuscì a terminare, come se un torto subìto a vent’anni lo giustificasse in eterno.
Salvatore Quasimodo non era in età di fare il soldato, nel ’43. Ma era “poeta ermetico” fin dagli anni ’30 e professore di letteratura dal ’39. Negli anni della guerra traduceva Catullo, il Vangelo di Giovanni e l’Odissea. È questa sua forte coscienza antifascista, questa sua resistenza attiva di cui poi si vantò in poesia: E come noi potevamo cantare, in mezzo a tanti morti e distruzioni? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese. Come gesto di profonda solidarietà con gli oppressi aveva dunque praticato una sorta di “sciopero della poesia lirica“, privando il regime e gli alleati del suo canto, mentre centinaia di poveri individui erano cremati a Mauthausen o uccisi al fronte.
Non che si debba essere eroi per forza («Sfortunata la terra che ha bisogno di eroi», scrisse Berthold Brecht), e ad un poeta – come a un matematico – non si richiede di comportarsi da partigiano. Ma si richiede coerenza morale e intellettuale. Si pretende della buona didattica da un professore, e non vale la scusa dei torti subiti da giovane. Ad un poeta lirico si richiede l’esempio, e la vicinanza a quel popolo la cui lingua usa, ed i cui patimenti esprime in poesia.
E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo?
Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.
Questo poeta, dopo aver espresso tanta sofferenza e disperazione, viene inebriato dalla consegna del Premio Nobel e, partito geometra, diventa d’un colpo imperatore, più tronfio degli imperatori romani della decadenza.
Un gruppetto di intellettuali, funzionari e insegnanti aveva, a Tarquinia, deciso di creare un premio a ricordo di un altro poeta e animatore culturale, da poco venuto a mancare. Il poeta da ricordare era Vincenzo Cardarelli, non insignito del Premio Nobel, ma per molti anni importante motore culturale della letteratura italiana e poeta non secondario lui stesso. I concittadini tarquiniesi lo facevano per orgoglio campanilistico, ma anche per porre tardivamente rimedio a quella supponenza che aveva fatto dei difficili natali di Cardarelli una barriera alla sua accettazione sociale.
Gli organizzatori del premio letterario, nel buio di quei primi anni ’60, non ebbero certo l’ardire di porre sé stessi a giudici artistici, ma si rivolsero ai maggiori letterati dell’epoca per dirigere il Premio. A Tarquinia, cittadina che brilla per storia ma non per una particolare attitudine culturale, il “dibattito era aperto” e si discuteva su quanto valesse la pena di inserirsi nella querelle artistica e nell’agone letterario. Ma di certo non se ne ignoravano i valori fondamentali e la posta in gioco. Il poeta popolare Titta Marini, esprimendo il pensiero di molti contro l’attitudine di altri, aveva scritto un epigramma intitolato proprio “Premio Cardarelli”:
Un fregno grasso, a larga intravatura, / sta, tutta trippa, in un caffè a fa’ il chilo / e, ‘gnorante de fronte e de profilo, / critica er premio de letteratura. / Dice: – Se sa che Cardarelli è noto, / però è finito povero, per cui / io che so’ ricco so de più de lui: / m’abbuffo e fo li rutti a terremoto. – / La penserà così fin quanno môre, / fin quanno er grasso j’ha coperto er côre.
Il manipolo dei fondatori, all’inizio degli anni ’60, aveva ritenuto di chiamare come membri della Giuria del Premio: Libero Bigiaretti, Leonida Répaci, Leonardo Sinisgalli, Giuseppe Raimondi, Francesco Boneschi. E come presidente il da poco (1959) laureato Nobel Salvatore Quasimodo. Parterre de rois, si sarebbe detto, forse troppo per la piccola Tarquinia, ma non per la fama e l’importanza di Cardarelli nell’Italietta letteraria di allora.
Nel 1963 avvenne l’irreparabile. L’Auditorium di San Pancrazio a Tarquinia si apprestava a celebrare la proclamazione dei vincitori di quell’anno e i fondatori erano tutti in trepidante attesa della Giuria, insieme ad una qualche presenza fra l’attento pubblico in sala. Non una folla straripante, ma nemmeno disprezzabile, in percentuale di tutta la popolazione. E c’ero anch’io, a documentarvi i tristi avvenimenti successi.
Il manipolo dei giurati, venuto da Roma “al paese” per una gita fuori porta e relativa abbuffata, era intimamente convinto di recarsi a portare il verbo ai baluba, e sicuro di trovarsi – come sempre – in quasi perfetta solitudine a disquisire dei massimi sistemi.
Invece, quel giorno, c’erano in strada moltissime persone, in attesa dell’arrivo di una corsa ciclistica per dilettanti. Il tronfio Quasimodo, ormai voglioso del plauso delle folle oceaniche per il suo Nobel, equivocò la presenza e pensò per un momento che quella moltitudine fosse lì per rendergli il dovuto omaggio.
La delusione per il composto e non scarso pubblico dell’Auditorium fu allora così grande che il Poeta Sommo Laureato cominciò a sproloquiare su un «Paese di ignoranti, paese di morti» e che «A Roma ci sarebbe stato ben altro seguito alla sua fama». Il poeta popolare Titta Marini, da vero poeta, gli rispose scherzosamente con una satira in cui si paragonavano le virtù storiche degli antichi tarquiniesi e quelle dei romani, e pensammo tutti che fosse finita lì:
Quanno un etrusco, disgrazziatamente, / s’aritrovava un fijo deficiente / te lo sbatteva a Roma pe’ fa’ er re, / co’ un branco de armiggeri, lacchè, tassari, boia e clero… / merda su merda, se formò l’impero.
In quarant’anni da tarquiniese esiliato a Roma ho ripetuto spesso quei versi, per orgoglio campanilistico, ma anche come degna e scherzosa risposta alla prosopopea dei potenti. Ma ignoravo quanto il destinatario occasionale avesse meritato i peggiori epiteti che vi erano contenuti. Salvatore Quasimodo, poeta sommo deluso dai tifosi del ciclismo, aveva infatti dato le dimissioni da Presidente della giuria del Premio Cardarelli (e ce ne saremmo fatti una ragione…) ma con questa lettera, inviata all’allora Ministro dell’Istruzione Luigi Gui e diretta a Trieste Valdi, segretario del Premio:
«Comunico a Lei, segretario e “nostalgico” direttore didattico, le mie dimissioni da Presidente della Giuria […]. Il Premio, nato per onorare la memoria del Poeta, non è gradito alle autorità locali, dico del Sindaco di Tarquinia e del “fascista” Provveditore agli studi di Viterbo che fa ignorare agli studenti e ai docenti della città una manifestazione culturale alla quale partecipano illustri rappresentanti della letteratura italiana contemporanea. I poeti non possono sopportare coloro che nella scuola o nella vita pubblica tentano di distorcere con la viltà dell’esempio la forte coscienza antifascista della Nazione né tanto meno sopportano i loro minimi servi. Salvatore Quasimodo – Milano 20 giugno 1964».
Per essere sicuro di dare risonanza alla cosa, Quasimodo inviò la lettera al Ministro, al Prefetto di Viterbo e al Presidente dell’ente del turismo di Viterbo. Per fortuna la rilevanza di questa lettera fu invece scarsa: il Premio continuò negli anni successivi con Leonida Répaci a far da Presidente della giuria e le solite polemiche fra tarquiniesi circa l’utilità della letteratura. Ma la lettera di Quasimodo (pubblicata con il testo parziale che è stato riportato in nota al volume “A Leonida Répaci – Dediche dal ‘900” di Santino Salerno, edito da Rubettino) merita che gli sia restituita tutta l’ignominia che contiene.
Si rivolge intanto, il vate adirato, al Ministro, al Presidente dell’EPT e al Prefetto, perché gli illustri potenti ne vendichino l’offesa. Non si rivolge ai promotori del Premio che avevano voluto fargli l’onore della Presidenza, ed ai quali aveva tutto il diritto di rispondere “No, grazie, non sono più interessato”. Offende poi gratuitamente il prof. Valdi, definendolo “nostalgico” direttore didattico come se lui si fosse comportato da eroe durante il regime e non avesse invece, più di altri, approfittato del clima culturale. Ed ignora, dall’alto della sua boria, come Valdi fosse impegnato con Volpicelli a rinnovare la didattica italiana, aprendola al resto del modo.
Quasimodo bolla i promotori del Premio come “fascisti” e loro minimi servi, che tentano di distorcere con la viltà, nella scuola o nella vita pubblica, i poeti e gli illustri rappresentanti della letteratura italiana contemporanea. Insomma, chi non incensa il Vate e gli altri letterati deve essere punito severamente. Quasimodo accusa gli altri di fascismo, ma in realtà se ne era talmente imbevuto, di quell’ideologia e della sottomissione tipica della dittatura, da richiedere che il Sindaco e il Prefetto mobilitassero per rendergli onore le folle plaudenti dei “figli della lupa” e delle ”giovani italiane”. Cos’altro significa, se un letterato sa quello che scrive, la frase dico del Sindaco di Tarquinia e del Provveditore agli studi di Viterbo che fa ignorare agli studenti e ai docenti della città una manifestazione culturale alla quale partecipano illustri rappresentanti? Voleva gli scolari in divisa che gli facessero ala, obbligati dal Sindaco e dal Provveditore con apposita ordinanza.
Quel giorno ero all’Auditorium e, per parte mia, mi sono divertito e appassionato. Ma di fronte all’obbligo di essere lì per rendere onore al Grande poeta, mi dispiace quasi di non essere stato fra i tifosi del ciclismo. E, sempre in quel tempo, pensavo che i promotori del Premio e di altre attività culturali tarquiniesi fossero sì un po’ reazionari e antiquati. Ma di fronte al vero fascismo – insieme a una vanagloria da basso impero – espresso in così poche righe dal grande letterato Quasimodo, non posso che ricredermi rispetto ai concittadini. E dedicare al sommo poeta quell’invettiva che il mio collega di un tempo dedicò platealmente al professor Fichera.
Questa storia, nonostante tutto, però è a “lieto fine”: la didattica universitaria e la qualità di molti professori, dopo le tempeste del ’68, è sicuramente migliorata. Anche il Premio Cardarelli è migliorato. Non solo perché Quasimodo si dimise, ma perché un nuovo gruppo di “promotori” l’ha fatto rinascere di recente, dalle nebbie di un ennesimo tentativo di organizzarci sopra la “gita al paese” e la relativa abbuffata. Il Premio Cardarelli di oggi è gestito dal Comune in prima persona e, sebbene anch’esso non esente da critiche, ha permesso a molti ragazzi delle scuole superiori di incontrare gli scrittori e dialogare con essi (direttamente a scuola, non con l’ordinanza prefettizia…). Ed è diventato l’appuntamento culturale dei sabati invernali, l’occasione per i tarquiniesi di uscire – almeno una volta a settimana – dalle polemiche “dentro le mura” che tanto li appassionano. E, come direbbe Titta, questo non può che far bene alle loro coronarie…
Quanto ai “premi letterari”, conviene cedere – al solito – la parola a Titta:
A Vincenzo Cardarelli / che il premio Tor Margana / pro gli fece / come il piombo al lepre.
Già ch’er vino fa di’ la verità, / ce vô che quelli della commissione / votino sbronzi / pe’ non dà er premio ar solito zuccone. / Mentre, invece, purtroppo, / s’imbriacano doppo.