Ricordo. Sì, ricordo ancora benissimo che ho trascorso il Primo Maggio 1972 nell’Unione Sovietica di Leonid Breznev. A Leningrado e precisamente all’Hotel Leningrad il cui merito maggiore era quello di trovarsi a poca distanza dalla stazione di Finlandia, dove nel ’17 Lenin era sceso da un treno piombato per innescare la Rivoluzione d’Ottobre.
Ricordo anche che nel ’72, anno di guerra fredda, mi trovavo in Russia perché potevo visitare i paesi dell’Est blindati dalla cortina di ferro e inaccessibili al turismo di massa, grazie ad alcuni amici provvisti di permessi speciali. Viaggi preziosi che si snodavano non solo nello spazio geografico, ma anche nello spazio storico del comunismo reale, sulle cui atmosfere, ormai dimenticate da tutti, forse è utile dare testimonianza su L’extra. Ovviamente a mio modo.
Dunque: alla fine di aprile di quell’anno, in realtà non mi trovavo a Leningrado, ma a Mosca dove, insieme agli amici, alloggiavo all’Hotel Rossija allora considerato l’albergo più grande del mondo. Un hotel strategicamente costruito nei pressi del Cremlino per ordine del governo, ma – dopo la caduta dell’Impero Sovietico – fatto abbattere dal sindaco Luzchov che lo riteneva troppo mostruoso. Era infatti, il Rossija, un immane labirinto di corridoi incrociati sui quali si affacciavano 4000 (quattromila!) camere arredate in modo spartano, in ciascuna delle quali incombeva una fotografia di Breznev che impauriva gli ospiti con il suo sguardo severo e pieno di sospetti. Ma il vecchio Leonid aveva ragione, perché quell’albergo era considerato il covo di spie più intrigante e trafficato dell’intero pianeta. Il che ci divertiva moltissimo.
Eccezionalmente, in quei giorni, il mastodonte brulicava anche di ufficiali dell’Armata Rossa giunti dalle più remote Repubbliche Popolari Sovietiche per partecipare alla grande parata davanti al Mausoleo di Lenin. Alti ufficiali amanti della vodka che, in perfetta uniforme (nastrini e medaglie comprese), si disorientavano facilmente e si perdevano in quella spropositata scacchiera edilizia, mettendo tutti in allarme. Il che ci divertiva ancora di più.
Purtroppo però, in qualche parte “era scritto” che, per insondabili ragioni, noi, il Primo Maggio non avremmo dovuto trovarci a Mosca, bensì a Leningrado. Perciò ce ne andammo.
Leningrado ci accolse con una tempesta di nevischio e con il fiume Neva (pronunciare Nieva alla russa) sigillato in una spessa lastra di ghiaccio grigiastro. Eppure, nonostante il gelo polare che assediava anche l’albergo, durante la cena su di noi scese – da un punto imprecisato del soffitto – una voce ottimista che, in perfetto italiano, enunciò: “I compagni che parteciperanno alla manifestazione del Primo Maggio dovranno trovarsi domani mattina alle 8 sul marciapiede antistante l’albergo, dove verranno accolti da una delegazione di metalmeccanici locali”.
L’indomani mattina indossai un maglione rosso che ritenevo adeguato alla circostanza e, pur non aspettandomi niente di buono dal cielo, uscii all’aperto. Rimasi incantata: la giornata era limpida, azzurra e splendente;la grande Nieva scorreva maestosa portando con sé le ultime lastre di ghiaccio e Leningrado, tutta cupole e guglie d’oro che brillavano al sole, sì Leningrado – cioè l’imperiale San Pietroburgo zarista a cui Lenin aveva rubato il nome – era bellissima. Anche perché i suoi cento ponti, da quelli più vicini a quelli lontanissimi, erano gremiti di gente in marcia gioiosa e percorsi da selve di bandiere rosse che si specchiavano nell’acqua. Un’immagine forse retorica, ma una grande visione di Russia profonda che nessun regista di regime avrebbe potuto immaginare più bella.
Mentre il corteo sfilava finalmente davanti ai nostri occhi, accadde una cosa che ci fece battere il cuore. Dalla folla si levò all’improvviso una voce: “Una mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”. Era certamente un saluto per noi “compagni italiani”, ma anche un segnale per i metalmeccanici della delegazione che si staccarono dal corteo e ci rifornirono velocemente di bandiere rosse con la falce e il martello, di bandiere azzurre con i simboli di Leningrado città marinara e di enormi rami coperti di fiori di carta. Io feci incetta di tutto: di doppie/triple bandiere, di doppi/tripli rami di fiori finti e soprattutto di doppi/tripli, anzi sestuplici baci di entusiasti metalmeccanici sovietici, perché in Russia i baci si danno a tre a tre.
Iniziò così la nostra marcia su Leningrado, che marcia vera e propria non era, ma festa popolare, scampagnata in città fatta di balli e di canti, di giochi e di scherzi, di corse e rincorse, di abbracci e di baci in triplice copia.
In tarda mattinata, sfiniti ma felici, arrivammo alla meta e la meta era una grande piazza che si stava velocemente svuotando perché eravamo in ritardo. E lì proprio lì, i metalmeccanici che prima ci avevano sedotti, ci abbandonarono senza pietà nel cuore di una metropoli di cinque milioni di abitanti a noi sconosciuta, con le insegne scritte in alfabeto cirillico e priva di mezzi di trasporto perché quel giorno era il Primo di Maggio e perciò i lavoratori non lavoravano.
All’inizio ci accapigliammo accusandoci a vicenda di comportamenti irresponsabili e poco seri, ma, in seguito, decidemmo che, per rientrare in albergo, avremmo dovuto seguire la corrente del fiume fin quasi in Finlandia, non prima di esserci liberati dalla zavorra, cioè dai pesanti rami fioriti, che gettammo miseramente nelle suggestive acque care a Dostoevskij, Rasputin e Anna Karenina. Personaggi dei quali in quel momento, francamente, non ci importava più niente.
Evitammo, però, di gettare nel fiume le bandiere con la falce e il martello perché, ormai annebbiati dalla fame e dalla stanchezza, sospettavamo che l’oltraggio non sarebbe piaciuto ai servizi segreti sovietici che, secondo noi, ci tenevano d’occhio.
Fu così che, trascinando faticosamente nella polvere le sacre insegne ed i vessilli con il passo dei superstiti napoleonici durante la ritirata di Russia, giungemmo in albergo a sera avanzata, implorando un tozzo di pane e un po’ d’acqua. Ma, ahimè, anche all’Hotel Leningrad era il Primo di Maggio, perciò le cucine erano chiuse e le dispense serrate. Né si sarebbero riaperte prima dell’indomani mattina, perché noi stessi avevamo disdetto la cena per andare a vedere un balletto in un famoso teatro che allora si chiamava Kirov in onore di un grande eroe bolscevico e che – sic transit gloria mundi – ora si chiama di nuovo Teatro Marijnsky in ricordo di una granduchessa imperiale di nome Marija.