di Francesco Rotatori
1665-2015: 350 sono gli anni trascorsi dalla morte del magnifico Nicolas Poussin(1594-1665), maestro del Barocco francese che attraverso le sue tele ha anticipato gli esiti dell’arte ottocentesca, scavalcando quasi duecento anni di storia e di ricerca.
Fino al 29 giugno il Museo del Louvre gli dedica un’appassionata retrospettiva, POUSSIN ET DIEU, nella Sala Napoleonica, curata da Nicolas Milovanovic e Mickael Szanto i quali hanno inteso sottolineare l’estrema novità della pittura sacra dell’artista che, partendo come i migliori da stilemi raffaelleschi (il Louvre ha qua temporaneamente trasferito la Belle Jardinière dell’Urbinate evidenziandone l’importante ascendenza esercitata sulla sua scuola), ha inteso scardinare le ripetitive articolazioni del primo Seicento alla luce di una grande profondità di riflessione. L’intento dei curatori è di rivalutare la produzione di tematica religiosa che la storia dell’arte ha sempre provveduto a retrocedere rispetto a quella profana, nella quale è stata letta un’importante acquisizione della classicità a partire da modelli antichi e archeologici.
Se infatti la grande pittura di storia ha avuto proprio in Poussin uno dei massimi cantori, anche la religiosità non è da meno: la serie dei Sacramenti– ora divisa tra la National Gallery of Art di Washington e il Bevoir Castle di Grantham- non solo evoca i principali trascorsi dell’umana vita all’interno del filone di Controriforma cattolica, ma soprattutto è da rileggersi nell’ottica dell’influenza che la figura del maestro ebbe su Stella, Bourdon e l’intiera tradizione che dagli anni di Luigi XIII conduce a quelli tragici di Luigi XVI e rivoluzionari di Luigi XVIII.
Così come nel ciclo delle Stagioni, suo lascito e ultima riflessione sul destino ineluttabile dell’uomo, è impossibile distinguere in La primavera o Il paradiso terrestre la concretezza sensibile del paesaggio lussureggiante dall’immateriale presenza del noema religioso, che vi aleggia al pari della figura del Creatore, posto tra le nubi in alto a destra.
E infine è necessario indicare in Eliezer e Rebecca non tanto l’incontro biblico trascritto alla maniera dell’artista, che qui realizza un bassorilievo di alta levatura e raffinatezza cromatica, quanto il tentativo di porsi al di sopra della semplice enucleazione di elementi presupposti che aveva fino ad allora spadroneggiato nell’iconografia.
Come è possibile non innamorarsi poi della resa pittorica dei capolavori esposti? Lo stesso Poussin avrebbe detto: “Il disegno è lo scheletro di ciò che hai intenzione di fare, il colore è la carne”. Un colore che indomito regna, vincendo sulle diffide e i discrimini che la storia dell’arte pone a volte a se stessa, riscoprendo poi solo in tempi successivi i limiti assiomatici del suo filtro selezionatore.