Si sono svolti stamani, nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma, i funerali di Pierluigi Pirandello – uomo di grande e vivace cultura, che da molto tempo aveva scelto di vivere a Tarquinia, città di cui era cittadino onorario – scomparso ieri. Era figlio di Fausto Pirandello pittore, e nipote di Luigi Pirandello drammaturgo e molto altro. lextra.news lo ricorda con un articolo che Anna Alfieri scrisse, a seguito di una chiacchierata con lui, sul numero di Novembre del 2007 de L’extra cartaceo. Dalla Redazione, sentite condoglianze alla famiglia.
Parlando con Pirandello in via delle Torri, 31
di Anna Alfieri
In una villa del Lido di Tarquinia, appartenuta al fratello medico di Nino Manfredi, trascorre molto del suo tempo un uomo grande, grosso, flemmatico e sornione. Discende da una famiglia di Agrigento, è nato a Parigi, ma parla con l’accento lento di molti capitolini, perché vive a Roma dove esercita la professione di avvocato. In realtà la sua occupazione principale consiste nel collaborare, su richieste che gli provengono da ogni parte del mondo, all’elaborazione di decine di tesi di laurea: alcune in letteratura italiana, altre in storia del teatro, altre ancora relative alla pittura del Novecento. Infatti Pierluigi Pirandello, questo è il nome dell’omaccione, è figlio di Fausto Pirandello, pittore tra i più noti del secolo passato e, quindi, anche nipote di Luigi Pirandello, Premio Nobel per la Letteratura nel 1934.
Quanto a me, recentemente ho avuto il piacere di conversare con lui in Via delle Torri 31, precisamente presso la Società Tarquiniese d’Arte e Storia, dove il nostro tranquillo parlare è stato così emozionante che, al momento di salutarci, ci siamo baciati sulle guance con quello speciale trasporto che usa tra amici perduti e ritrovati o tra persone che, senza reticenze, si sono appena confidate cose delicate e vecchi ricordi. Ricordi che quella mattina fluivano, chissà per quale incantesimo autunnale, vivissimi ed intensi; ricordi per l’avvocato Pirandello spesso dolorosi, perché dominati dall’incombente personalità del nonno drammaturgo e dalle asperità psicologiche del padre artista che, sempre in bilico tra depressione ed entusiasmi, altalenante stilisticamente tra Spadini e il Cubismo, tra la Scuola Romana e la Metafisica, aveva trovato la vera cifra della sua arte in opachi, densi e drammatici quadri di nudi, di spiagge, di interni e di nature morte.
Rincorrendo i suoi pensieri, l’avvocato mi ha raccontato che suo nonno, nato nel profondo sud italiano quando Agrigento si chiamava ancora Girgenti, in realtà si era laureato a Bonn con una tesi pensata, scritta e discussa in lingua tedesca e che, ciò nonostante, il suo vecchio e detestato antagonista Gabriele D’Annunzio, intimamente frustrato per non aver mai ricevuto il Nobel, lo definiva un “dilettante siciliano, provinciale ed incapace di trovare la compattezza nel disordine e la ragione nel caos”.
Incoraggiata dal tono confidenziale della nostra conversazione, ad un certo punto – con l’irriflessiva leggerezza che mi caratterizza – ho chiesto al mio interlocutore di dire a me, solo a me, (proprio a me!) qualcosa che non fosse mai stata scritta nei libri di letteratura. A questa proposta quasi indecente, Pierluigi Pirandello, compatibilmente con la sua mole, è sobbalzato sulla sedia, mi ha guardato esterrefatto e poi, serrando le palpebre, è piombato in un mutismo così lungo, compatto e impenetrabile, da apparirmi perfino ostile. Invece poco dopo, come riemergendo da un lungo viaggio intorno alla sua memoria, ha spalancato di nuovo gli occhi e a bassa voce ha scandito queste precise parole, pesanti come pietre: “La mia famiglia ha pagato a carissimo prezzo la situazione di sudditanza delle donne in Sicilia”. E mi ha parlato del suo dramma familiare primigenio, cioè di sua nonna Maria Antonietta Portulano che, improvvisamente impazzita nel 1903, sarebbe morta nel 1959 in una clinica psichiatrica, dopo una lunghissima vita sconvolta dalle lacerazioni della sua “personalità alterata, scomposta in forme maniache, popolata di fantasmi deliranti, torturata dalla sua ansia di distruzione”. Infine, ha evocato per me, si, questa volta proprio per me, l’immagine nitida come una scena di teatro, di suo nonno per giorni e giorni al capezzale della moglie dalla mente stravolta, seduto su una sedia nell’atto di scrivere tutto “Il fu Mattia Pascal”, tenendo i fogli appoggiati sulle ginocchia accavallate.
Non credo davvero che questo episodio costituisca un inedito nella sterminata bibliografia pirandelliana, ma il racconto che lo evocava era così intenso e vivo che, nell’ascoltarlo, avevo l’angosciosa sensazione di trovarmi in quella stanza satura di follie, della quale immaginavo persino l’odore e l’opacità della tappezzeria, illuminata solo da un fascio di luce che cadeva sulle spalle dello scrittore chino sui fogli del suo romanzo. Una stanza vera, tangibile, dove intravedevo, in piedi in un angolo buio accanto al letto, perfino il malinconico “bibliotecario colpito da avversi fatti”, cioè il fu Mattia Pascal in persona, che nella mia fantasia aveva il volto pallido ed assorto di un maturo Marcello Mastroianni, vestito di un lino chiaro e sgualcito.
Poi la visione è svanita, il pathos si è sciolto, e il mio interlocutore ha ripreso pianamente a raccontarmi molte cose riguardanti suo padre Fausto, pittore spigoloso e uomo introverso, segnato da una forte drammaticità esistenziale, uno di quelli che a tavola leggono il giornale appoggiato alla brocca dell’acqua, che amava molto conversare con Vincenzo Cardarelli, del quale apprezzava l’acre ironia che connotava il difficile carattere di entrambi. Eppure, ha concluso il massiccio avvocato che al tempo di Cardarelli era poco più di un esile ragazzetto, non è stato il ricordo del poeta cornetano a spingerlo nella nostra città, bensì l’origine tarquiniese di Rosella Falk che, in una lontana sera del 1963, lo folgorò al Teatro Valle di Roma, recitando Pirandello in “Sei personaggi in cerca d’autore”.