di Marco Vallesi
Sì, impazzita, comunque e ovunque. E sì, perché quando si mettono insieme materie varie e non omogenee, tentando di emulsionarle agitandole in tutte le direzioni, alla fine, si ottiene un miscuglio che non regge, che non è “spalmabile” e che diventa un rivolo moccicoso di liquame fetido e nauseabondo. Lo spettacolo a cui si sta assistendo in questi giorni, purtroppo, non suggerisce metafore meno ributtanti.
Drammaticamente, la maledizione ipocrita che sovrasta l’enorme patrimonio dell’ente Agrario tarquiniese è talmente radicata nella mentalità autolesionistica della cittadinanza che, se si volesse analizzarla sin nelle sue più profonde radici, nessuno dovrebbe sentirsi esente da responsabilità o colpe.
C’è, tuttavia, una gerarchia nel lunghissimo elenco che si potrebbe compilare per attribuire dette responsabilità a precisi soggetti sullo stato dello sfascio di un ente che doveva, e poteva, gestire la proprietà collettiva al fine di produrre le migliori ricadute sulla comunità in termini di sussistenza, sussidiarietà, solidarietà e, ultime ma non ultime, occupazione e sviluppo.
Non si può ora, ovviamente, scendere nel dettaglio di certune modalità di svilimento del ruolo e del significato della Università Agraria di Tarquinia ma, non per questo, si intende soprassedere nel focalizzare e stigmatizzare i comportamenti ipocriti delle recenti amministrazioni e quelli delle relative opposizioni, compreso il loro perfetto e complice corollario del “silenzio-assenso” su questioni assai spinose e dirimenti; senza escludere, dal presente quadro d’insieme, la sudditanza e la colpevole condiscendenza dei numerosi “tengo famiglia-magari no-ho qualche spesa da sostenere-ho diritto al lavoro-e pure qualche vizietto-perché no?” dipendenti in forza, più o meno stabile, all’ente; in primis, coloro i quali hanno ruoli relativi alla gestione finanziaria dell’ente.
Ciò che si registra in queste giornate, al riguardo delle vicende “agrarie” e dello sproloquio tra fazioni, è talmente assurdo, incoerente e ridicolo al punto da poter costituire un “corpus stupidarium” da tramandare ai posteri come memoria della decadenza morale, civile e comunitaria della Città. Come finirà? Male, anzi, peggio. Come al solito, cioè.