di Stefano Tienforti
Nel mio modo tutto personale di fare ordine nella mia testa la immagino come un magazzino pieno di scatole. Inutile dire che c’è spesso disordine, superfluo sottolineare come le vicende degli ultimi mesi abbiano messo tutto letteralmente a soqquadro.
Da qualche settimana – scossoni e incidenti permettendo – pian piano i pezzi tornano faticosamente al loro posto e la vita somiglia di più a quell’idea di normalità a cui sono (siamo) abituato/i.
Ebbene, per quanto le vicende a cui questi mesi ci hanno messo di fronte tendano a ridimensionare un po’ tutto, l’essere ieri sera seduto sulle poltrone del cinema – circa sei mesi dopo l’ultima volta – mi ha dato la sensazione che qualcuna di quelle scatole sia tornata al posto suo.
Normalità. È un concetto che appare così banale eppure ieri sera mi ha trasmesso una tale armonia con i suoni e i colori della sala (piuttosto, “Una sirena a Parigi” è un film che merita una visione) da farmi tornare a quell’abitudine fatta di pellicole come se non la avessi mai dovuta abbandonare.
Ho la fortuna, in questa città, di sentirmi davvero a casa in più di un angolo di essa: su qualche panchina, sulle sedie di qualche bar o ristorante, sugli sgabelli di una libreria e, forse più di tutti, sulle poltrone delle sale del cinema. Il motivo di questa empatia l’ho capito proprio in questi mesi prima di assenza totale, poi di distanze di sicurezza: nel periodo del “distanziamento sociale”, e nonostante il massimo rispetto del distacco fisico e delle norme di protezione, in tutti quei posti si promuove un avvicinamento umano, emozionale, culturale. Lo sbaglio più grosso che possiamo fare – e oggi è evidente più che mai – è dare questi posti, e queste sensazioni, per scontati.