Riceviamo e pubblichiamo
Quand’ero bambino, ogni volta che passavamo sotto Santa Maria in Castello, mio padre mi soleva ripetere che Napoleone l’aveva usata come stalla per i cavalli della sua Armée ed io vedevo, nella mia mente, quei maledetti far urinare le loro bestie sui mosaici sacri del nostro Tempio, staccare via le pietre preziose della sua superba facciata colle loro baionette e saltellare ed arrabattarsi su tavole di legno e scale di fortuna, per strappare via anche le tessere che, più alte, allo scempio erano ancora sfuggite. Allora, li odiavo e la mia stessa stima ed ammirazione di quei campioni di Libertà, portatori di Fratellanza, mi bruciava nelle tempie.
Animato dal desiderio di emulare i nostri concittadini che presero parte, negli anni, alle lavorazioni di differenti film, realizzate in varie parti del nostro territorio ed in particolare dell’incantevole Centro Storico di uno dei centri maggiori della storia dello Stato Pontificio, che testimonia la nostra perduta grandezza, mi sono trovato ad impersonare un frate, nella più che suggestiva Santa Maria in Castello, la quale, nella finzione scenica, avrebbe dovuto essere una Firenze ammonita dall’indice accusatorio di Fra’ Girolamo, incarnato da un attore tanto nordico, pallido ed anglofono da essere assolutamente non credibile nei panni di Savonarola: difficilmente quella pelle bianca avrebbe funto da schermo al sole nella canicola d’un’estate ferrarese, tanto che, di sicuro, ne sarebbe stata trafitta.
Dei bambini messi in prima fila e poi ammoniti e sgridati e poi, ancora, scacciati, mi sembravano molto più savi di chi avrebbe dovuto farli recitare. Credo che se ad un bambino di cinque anni si dice di non guardare in camera, quella è proprio la prima cosa che fa… Mentre li trattavano come Divi scartati ad un facile provino, facendoli retrocedere nelle retrovie, le mie labbra si muovevano da sole: «nun c’hanno proprio modo…è colpa loro, erano loro che avrebbero dovuto insegnaje prima…l’hanno messi lì, pe’ ore e ore, senza spiegaje gnente prima…ma, anzi: so’ stati pure troppo bboni!».
Nel frattempo, mentre varie figuranti, compite, a capo velato, mi accennavano in assenso, maternamente approvando il mio pensiero, il grosso delle comparse aveva già eletto il vero Savonarola, scegliendolo nel mio compagno di comparsata, che, vestito da Domenicano, era veramente simile all’originale. Nelle pause, mentre a comparse ultrasettantenni veniva negato di riposarsi un attimo su sedie predisposte per giornalisti che si trovavano chi sa dove, ma sicuramente non sul posto, un compagno di ventura mi informava che quella era una produzione mondiale, la migliore al mondo, poiché mostrava la vera storia dei Borgia, che erano stati quelli “che trombavano”.
Poi… una fitta al cuore… il cervello si rifiuta di accettarlo: vedere carrelli pesanti con attrezzi di scena trasportati a mano sul pavimento, che ancora si ostina, dopo secoli di offese ed umiliazioni, a sorreggere il manto di quei meravigliosi mosaici che i nostri Padri realizzarono quando le nazioni stesse degli antenati dell’attore e dei tecnici della troupe erano ben al di là dal venire. Quando i nostri incomparabili artisti stesero quel velo di pura bellezza, intonando gli accenti della più dolce fra le lingue, gli idiomi stessi che essi parlano, e che ci impongono, neanche esistevano! Quando è stata costruita Santa Maria in Castello, in Nord America vivevano i pellerosse e la stessa lingua inglese moderna neanche esisteva…
Altri figuranti mi fanno notare degli allestimenti scenici del tutto improponibili, in quel superbo luogo di Fede, Arte e Cultura… m’indicano una mattonella di cotto divelta e spaccata a metà, dei frammenti di macco sparsi sul pavimento, dove i tecnici, alle prese con il binario della telecamera mobile e le cineprese portatili, chiedono ai miei occhi sbarrati, attoniti ed increduli: «che ti guardi? Hai perso qualcosa?» e, mentre gli attori per un giorno, tirando ad indovinare quanti soldi avrà incassato la Curia per consentire le riprese, mi ripetono la stessa cosa che ho sempre sentito dire, sin dall’infanzia («ma che ce voe fa’…ma lassa perde’…tanto so’ loro che c’hanno da paga’…ma chi te lo fa fa’ d’esporte…»), la mia mano raccoglie, tremante di rabbia ed offesa, alcune tessere del mosaico, staccate e giacenti ai nostri piedi, come sangue di bambino, perché ho deciso, ancora una volta, che mi esporrò, che li consegnerò alle Autorità di Polizia, che farò presente la cosa, perché la mia Coscienza mi impedisce di tacere.
Il futuro di Tarquinia è più importante del mio. L’Arte indica la nostra vera origine e, testimone della nostra prima famiglia, ci contraddistingue, per sempre, da coloro che i nostri padri civilizzarono. Se proprio non la si vuole apprezzare, la si consideri almeno per ciò che potrebbe e dovrebbe anche essere: il nostro petrolio. L’Arte è bellezza ed appartiene a tutti. I nostri antenati ci hanno lasciato il più grande e migliore patrimonio artistico al mondo. Noi cosa lasciamo a quei bambini i cui genitori hanno fatto a gara per vederli trattare come statuine?
Poi… un delirio inenarrabile… dopo aver fatto – con grande fatica per motivi che non vale la pena riportare – un Esposto alle Autorità competenti ed aver consegnato i reperti, sentirmi dire dall’Autorità ecclesiastica che ha la proprietà e la cura di quell’ineffabile Monumento di architettura e di religiosità e cui, ancora, tributo il mio rispetto, che i turisti vi entrano e si portano via le tessere del mosaico e che non può farci niente, perché la Sovrintendenza non autorizza l’apposizione di coperture in plexiglass o simili…
Ripenso alle mie visite a Santa Maria e San Pietro di Tuscania: sono aperte ad orario prestabilito, si possono visitare solo alla presenza di guardiani sul posto ed i mosaici, protetti da cordoni e transenne, non possono assolutamente essere calpestati, né si possono fare fotografie col flash…e, mentre scrivo questo breve pezzo, mi brucia ancora l’anima, risuonandomi nelle orecchie, il comando assurdo del capoccia: «Non parlate italiano! Non parlate italiano!».
Alessio Colotti