Riceviamo da Sandro Vallesi e pubblichiamo
Siamo al tramonto della democrazia? In occasione dell’anniversario dell’assalto a Capitol Hill, in molti se lo stanno chiedendo e aggiungono considerazioni sulla essenza stessa di questa forma politica di organizzazione della società. La domanda è legittima, non solo per l’importanza degli Stati Uniti nella realtà mondiale, ma perché la democrazia americana è la più longeva della storia, più della stessa Grecia, dove è stata fondata. Quella americana dura dal 1776, dunque quasi 250 anni mentre quella ateniese è durata dal 510 (la costituzione di Clistene) al 338 a.D. (l’inizio del dominio macedone), pari a 172 anni. I commentatori odierni fanno riferimento anche ad altre esperienze democratiche in grandi e meno grandi nazioni, ma è innegabile che quella americana può ben rappresentare una fattispecie di valore universale. Pur con tutte le sue particolarità, da considerare, ma che non ne inficiano il valore paradigmatico.
Se e perché la democrazia sia al tramonto va preceduta da un breve esame delle ragioni della sua nascita e delle sue caratteristiche fondamentali. In Grecia, più esattamente ad Atene inizialmente, nacque a seguito della dittatura di Pisistrato e dei figli Ippia e Ipparco. Gli ateniesi rimasero bruciati da quell’esperienza di governo della città, più che da Pisistrato stesso, dai figli che, lungi dalle capacità che gli ateniesi riconobbero al padre, probabilmente ai loro occhi, segnavano in passaggio da un regime del governo di uno, comunque deciso o accettato dalla polis, ad una monarchia, un regime dinastico che prescindeva dalla volontà di tutti. Questo fu un punto dirimente nella riforma di Clistene, l’unico a poter giustificare l’insieme delle misure che furono varate: assemblearismo, rotazione, miscela di classi e territori, durata breve delle cariche. Tutto teso ad evitare la peste del potere assoluto. Tucidide che tante cose ha magistralmente detto sui greci, a questo proposito, pur riferendosi alla vicenda di Alcibiade, parlando delle misure comminate allo stratega ateniese in quel momento impegnato nella guerra con Siracusa, che potrebbero tranquillamente essere paragonate alla carcerazione preventiva di oggi, sottolinea che il terrore più grande di quella città era quello di veder tornare un nuovo Pisistrato. Dunque la democrazia come argine al potere monarchico, anche a costo di commettere ingiustizie o forzature legali.
Qui sorge la considerazione secondo la quale la democrazia, in quanto potere di tutti, da un lato deve apparire fragile, in quanto rappresenta la casa che anche il suo cittadino più debole possa sentire propria ed aspirare a diventarne governante, ma dall’altro deve essere dura e severa al fine di scongiurare il pericolo che i forti possano pretendere di governare da soli. La risposta della democrazia ateniese fu: la legge e la giustizia. Con la particolarità che entrambe erano demandate allo stesso organo: l’assemblea dei cittadini. La famosa vicenda di Socrate ne suggella la fondatezza.
L’esperienza americana ripercorre quella ateniese. I padri fondatori, vittime della intolleranza inglese figlia del duplice potere monarchico, civile e religioso in capo allo stesso sovrano, costruirono il sistema politico della nascente nazione con le stesse contromisure volte ad impedire qualsivoglia potere monocratico. Inevitabilmente con gli stessi difetti, che lo stesso Tocheville, pur conquistato dalla democrazia americana, non mancò di sottolineare. Ma difetti secondari, è bene rimarcarlo, rispetto a ben più marcati benefici che questo sistema politico comporta. La democrazia ateniese, val la pena di ricordarlo, cadde sotto le spade dei Macedoni, non per mano degli oligarchi.
Se dunque la democrazia, per questa strana commistione di debolezza e durezza, può soccombere solo di fronte ai cannoni, perché oggi è legittimo interrogarsi se sia al suo tramonto? Il fatto che un Presidente sconfitto alle elezioni non riconosca la vittoria del rivale ed in qualche modo rinfocoli la ribellione, ne prova la bassezza politica e la inadeguatezza personale. Mentre con la sua vittoria conferma la natura aperta e vulnerabile della democrazia (come fu ad Atene con Cleone successore di Pericle), con la mancata rielezione, ne ribadisce la straordinaria capacità di autodifesa. Tuttavia c’è oggi un pericolo nuovo, inedito, che può spezzare questo teorema. Per la prima volta nella storia dell’uomo l’agorà è mondiale. I due fattori congiunti: Internet e la diffusione dell’inglese, fanno sì che tutti possiamo parlare con tutti. Grande cosa, grande fatto democratico, grande novità. Per assurdo, però, questa rivoluzione, anziché trasformare il mondo in una polis, rischia di rafforzare le solitudini, le chiusure, le divisioni. La facilità a trovare le conferme alle nostre domande, l’offerta praticamente illimitata di risposte le più eterogenee e contrastanti, fa morire ogni autentica ricerca del confronto e della crescita culturale. La naturale propensione di andare verso il proprio simile, a chi la pensa come noi, ci porta a chiuderci in noi stessi ad evitare il faticoso lavoro di ascolto e di discussione con l’altrui opinione. Si trova sempre qualcuno che ci dia ragione e quella ragione al di fuori di qualsiasi verifica è molto confortevole e autostimante.
Se Internet ha tolto il velo al mondo, questo mondo ha ancora bisogno del coraggio dell’uomo di mettersi in discussione e di cambiare. Se la democrazia sia o meno al suo tramonto, non cambia la portata della sfida che ancora una volta l’uomo è chiamato ad affrontare. Siamo o no in grado di metterci in discussione, siamo o no in grado di cambiare noi stessi prima di pretendere di cambiare gli altri, siamo o no disposti a rinunciare alle certezze individuali per ritrovare quelle che ci faranno incontrare tutti? La democrazia è la casa collettiva, l’uomo col suo agire e con il suo pensiero la rende viva e prospera.