Lettera aperta dai famigliari e gli amici di Dario Angeletti: “Le tante facce della giustizia”

Riceviamo dai familiari e gli amici del prof. Dario Angeletti e pubblichiamo

Il 7 dicembre 2021, poco dopo le ore 13.00, in località Saline di Tarquinia (VT), il prof. Dario Angeletti, docente allora di 53 anni di Biologia Marina presso l’Università della Tuscia, padre di due ragazzi allora di 13 e 18 anni, viene assassinato sulla sua auto, con due colpi di pistola sparati a bruciapelo dietro l’orecchio destro, da tal Cesaris Claudio, allora di anni 68. La vittima non conosceva il suo assassino e lo ha fatto salire sulla sua auto perché questi, simulando un malore lungo la strada percorsa abitualmente dal prof. Angeletti per procurarsi un panino ad ora di pranzo, ha chiesto un passaggio – da questi prontamente dato per l’autentica disponibilità umana che lo contrassegnava – per raggiungere la sua vettura collocata in un parcheggio poco distante, dove ha eseguito freddamente il suo intento, ripreso dalle videocamere di sorveglianza lì presenti. Nel giro di poche ore l’omicida, che ha usato una pistola non denunciata e mai ritrovata e ha fatto di tutto per cancellare sulla sua persona e sui suoi abiti le tracce del delitto, è stato individuato e arrestato e non ha potuto fare altro che “confessare” (!). Il lettore che voglia saperne di più nel merito di questa assurda vicenda non ha che da cercare in Rete: qui per brevità diciamo solo che il 10 maggio 2023 la Corte d’Assise di Roma condanna in I grado l’omicida a 25 anni e 2 mesi di carcere (il PM aveva chiesto una condanna a 23 anni) per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e da futili motivi per aver agito “nei confronti di persona che frequentava la ex compagna” (allora neanche quarantenne) “dopo aver assunto informazioni sul conto della vittima, effettuato pedinamenti e sopralluoghi, essersi informato sulla possibilità di localizzare un telefonino spento e sulla percentuale dei casi irrisolti di omicidio, essersi procurato un’arma diversa da quelle denunciate e con essa aver atteso che la vittima uscisse dal lavoro”.

A metà luglio, dopo poco più di due mesi dalla sentenza – che aveva comunque espresso, rispetto alle aspettative di tutti noi familiari ed amici della vittima, una congrua idea di “giustizia” – la stessa Corte che lo aveva giudicato concede all’omicida, sulla base di nuove cartelle cliniche, gli arresti domiciliari (fino ad allora richiesti per due volte dalla difesa dell’imputato e per due volte negati, prima dalla GIP e poi dalla stessa Corte d’Assise) presso casa della sorella, con la possibilità di andare in ospedale a sottoporsi a chemioterapie e tornare tra accoglienti mura “domestiche”.

Siamo pienamente consapevoli che l’attuale condizione in cui si trova l’imputato, condannato in primo grado, riguarda l’applicazione di un regime cautelare piuttosto che di esecuzione di una pena, regime relativamente al quale la Corte ha evidentemente valutato che non ricorressero i rischi, previsti dal Codice, ostativi rispetto a una decisione di questa natura, e diamo quindi per acquisito che questo esito è giuridicamente e formalmente “legale”; tuttavia, noi familiari ed amici – semplici cittadini costretti loro malgrado a fare i conti con una incommensurabile tragedia – lo viviamo come frutto di un sistema che lo fa apparire “ingiusto”, quindi inaccettabile e offensivo di un’autentica idea di Giustizia, per due ragioni, strettamente collegate tra di loro: 1. innanzitutto, ovviamente e fondamentalmente, la natura del reato e le modalità con cui è stato premeditato, pianificato e spietatamente commesso; 2. in secondo luogo, l’abdicazione del Sistema Giudiziario al suo ruolo di garante super partes, in questo specifico ambito, del corretto funzionamento dello Stato di Diritto.

A nostro parere, infatti, di qualunque gravità siano le precarie condizioni di salute di un omicida di questo livello – il cui atto comporta il superamento di un confine di disumanità etico e relazionale da cui non si torna indietro – qualunque sia la sua età anagrafica e, questo è il punto cruciale e più delicato, in qualunque momento ci si trovi dell’iter giudiziario, lo Stato ha sicuramente il dovere di garantire assistenza e cure adeguate, nel rispetto del “senso di umanità” di cui all’art.27 della Costituzione (“senso di umanità” peraltro ampiamente onorato già dal solo fatto che anche le vittime, tutte le vittime, come cittadini che pagano le tasse, contribuiscono a questa assistenza e cure) ma all’interno della condizione di reclusione, unica garanzia di una parvenza di Giustizia che tenga in equilibrio i piatti della bilancia tra le responsabilità, inestinguibili e non legate allo scorrere del tempo sul calendario giudiziario, di un tale omicida e il doveroso risarcimento morale ed esistenziale di tutte le sue vittime, devastate da subito e per sempre da un evento di irrecuperabile gravità e di fatto costrette a subire un “fine pena mai”. Al di fuori di questo quadro, la logica dello Stato di Diritto, nell’ambito appunto di cui stiamo parlando, ne risulta svilita e umiliata e, di conseguenza, le legittime aspettative di piena Giustizia – e non certo di rancorosa vendetta – delle vittime tutte, frustrate e svillaneggiate. Di conseguenza non ci arrendiamo all’asettica impersonalità della “norma”, perché lo Stato in questo caso di fatto finisce per premiare uno spietato assassino e mortificare tutte le sue vittime. E ci permettiamo di dire che, alla luce di esiti di questa natura, non c’è poi da stupirsi se, nel parlare quotidiano dei cittadini, continua a riproporsi la litania, il luogo comune triste, rassegnato e dal sapore qualunquistico “eh, si sa com’è la giustizia in Italia…”, che di certo non fa piacere né onore innanzitutto a tutti quelli che lavorano con serietà e abnegazione in questo settore così delicato e impegnativo! E, ad ogni modo, sicuramente non gode di buona salute una democrazia in cui si registra, su temi così sensibili, uno scollamento tanto marcato tra il sentire diffuso dell’opinione pubblica e l’operato delle istituzioni.

Se rimaniamo quindi nel merito del delitto – che nella sua sostanza più brutale in nessun grado di giudizio potrà mai essere valutato diversamente, a meno che un giorno i fiumi non inizino a scorrere dalla foce verso monte e gli uccelli a fare il nido sul fondo dell’oceano! – e torniamo al reo e al suo reato, le cartelle cliniche di questo individuo mostrano che le sue patologie sono tutte anteriori al compimento di questo omicidio, da cui una domanda: se condizioni di salute problematiche non sono state sufficienti per contribuire a sollecitare in un “anziano” una riflessione sulla Vita e la Morte che lo distogliesse dal suo proposito omicida, perché ora dovrebbero valere per fargli ottenere un regime cautelare di favore? O forse costui aveva anche già premeditato, oltre all’omicidio, che proprio queste condizioni di salute, unite alla sua età anagrafica e magari chissà all’aiuto di qualche “santo in paradiso”, gli sarebbero tornate utili e lo avrebbero un domani aiutato, se fosse stato scoperto e arrestato (cosa che peraltro ha fatto di tutto per evitare, come gli atti processuali dimostrano, se le registrazioni delle videocamere non lo avessero costretto a “confessare”), durante un futuro iter processuale e giudiziario, a ottenere un duplice risultato, ossia togliersi la perversa e malvagia soddisfazione di colpire indirettamente la donna oggetto dei suoi deliri senili, eliminando una persona “scomoda” vissuta come rivale sotto tutti i profili, e cavarsela alla fine con poco danno?

In generale, tutte le caratteristiche dell’omicida – età, collocazione sociale, livello culturale – sono a nostro giudizio di fatto delle aggravanti rispetto all’atto compiuto: infatti, se dall’interno di questo profilo di persona né giovane, né ignorante, né marginale ed emarginata non sono emersi i freni – psicologici, morali, etici, relazionali, esistenziali – inibitori della violenza, significa che non ci sono e non ci saranno mai argomenti di sorta per parlare di una sua autentica e non strumentale “resipiscenza”, come quella formalmente espressa dall’interessato in una delle sedute del processo.

Infatti, se in linea generale e di principio per il colpevole di un atto di violenza viene valutato come “attenuante” il fatto di essere eventualmente nato e cresciuto in ambienti familiari e sociali emarginati e violenti, che lo renderebbero in qualche modo strutturalmente pressoché incapace di ricorrere a comportamenti di diversa natura, secondo la stessa logica l’essere invece nato, cresciuto e invecchiato in realtà del tutto diverse, come nel nostro caso, non può che costituire un’ “aggravante” – come già detto sopra – rispetto a un atto di violenza, soprattutto di questa entità e gravità! Di conseguenza, se con questo profilo un individuo di questa età è stato capace di compiere questo scempio, significa che dentro di lui c’è buio totale, tenebra fitta, rispetto alla quale anche l’idea che, alla conclusione dell’iter giudiziario, la detenzione abbia appunto il fine “costituzionalmente corretto” di recuperare il reo alla società suona come una vuota e retorica petizione di principio, che sposta altrove il focus del problema, eludendolo!

Come sappiamo, la Repubblica italiana ha abolito la pena di morte, decisione di grande civiltà, con la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948 e, in linea di principio, togliere la vita a un cittadino da parte dello Stato è un atto che ripugna assolutamente alla nostra coscienza. Bene, contestualmente però assistiamo sgomenti al fatto che un cittadino privato si è arrogato il diritto di comminare lui la pena di morte a un altro cittadino del tutto innocente e del tutto inconsapevole: il minimo che ci aspettiamo (aspettavamo) è che questa mostruosità sia (fosse) sanzionata da una pena congrua – e almeno questo è avvenuto in I grado – ma senza alcuna applicazione di un qualsivoglia regime cautelare “di favore” in attesa della conclusione dell’iter giudiziario, perché è lo Stato, come già precedentemente detto, che deve garantire nell’ambito del circuito carcerario presidi sanitari adeguati per far fronte a patologie di qualsiasi natura e gravità, sia degli imputati in attesa del giudizio definitivo (soprattutto nel caso di reati così abietti come un omicidio quale quello compiuto dal Cesaris) che dei detenuti effettivi.

Partendo da queste premesse e allargando più in generale lo sguardo sul mondo “dei delitti e delle pene”, non accettiamo da nessuno lezioni secondo cui “non è aumentando le pene che si risolvono i problemi”, ovvero che nella società “bisogna cambiare il rapporto uomo-donna” per evitare certi reati, perché sono entrambe delle “ovvietà” che non dicono nulla su questa e analoghe assurde vicende e implicano delle “rivoluzioni culturali” che richiedono tempi lunghi, molto lunghi, e non possono essere basate su “vangeli laici” frutto di qualsivoglia ideologia.

Tutti certamente accettiamo il principio di civiltà che “nessuno deve toccare Caino”, ma per onestà morale intellettuale ed esistenziale non possiamo assolutamente rischiare di cadere nell’eccesso opposto di non rendere da subito – e pertanto, ripetiamo, in qualunque momento ci si trovi dell’iter giudiziario, quindi, come nel nostro caso, anche quando non si tratta di esecuzione di una pena ma di applicazione di un regime cautelare – piena giustizia ad Abele, finendo per tenerlo sullo sfondo e considerarlo, per eccesso di intellettualismo etico, una sorta di “passaggio doloroso” sulla via della redenzione di Caino. Oltre ad Abele e con lui infatti sono stati contemporaneamente uccisi anche tutti coloro che sono a lui legati e lo amano e quindi, se in generale è giusto e doveroso che nella società rimanga sempre aperto il discorso sui diritti degli imputati/detenuti, lo è altrettanto sotto ogni profilo sanzionare adeguatamente le responsabilità e i reati degli imputati/detenuti e non mettere in nessun momento tra parentesi né tanto meno dimenticare le piaghe e i diritti delle loro vittime, soprattutto quando si parla di reati così odiosi e ripugnanti come un omicidio volontario premeditato e attentamente pianificato, aggravato da futili, dice la norma, inesistenti diciamo noi, motivi ed eseguito con una feroce freddezza degna di un assassino di professione.

Allargando di nuovo l’orizzonte del discorso oltre l’evento tragico che ci ha travolto, se torniamo all’art.27 della Costituzione sopra citato e ricordiamo a noi tutti che questa Carta fu elaborata, scritta e approvata in un momento storico di slancio ideale di rinnovamento profondo della società italiana, non possiamo però fingere di non sapere che molte affermazioni di principio in essa contenute e relative a vari ambiti rischiano di essere, se non del tutto inattuate, rese operative solo molto parzialmente. E a proposito dell’articolo in questione ci permettiamo di dire che è “facile” abolire la pena di morte, molto meno facile creare le condizioni per cui il carcere funzioni effettivamente come istituzione rieducativa. La regista figlia d’arte Giovanna Taviani quando nel 2013 girò il docufilm Il riscatto ebbe a dire: ”La scuola dovrebbe essere sempre meno “prigione” e il carcere sempre più scuola” (immagine di cui prendiamo solo il senso metaforico riferito al carcere, perché non è certo qui il luogo per parlare della scuola). Nella realtà carceraria italiana esistono certo “esperimenti” ed “isole felici”, di cui pur si sente parlare, che vanno in quella direzione, tuttavia nella percezione corrente di noi cittadini, turbati da gravi fatti di cronaca nera dagli esiti giudiziari spesso sconcertanti, a dominare è il fatto che la gestione della giustizia e del mondo carcerario abbiano molti problemi e purtroppo sono decenni che lo constatiamo con cadenza quotidiana e ce lo sentiamo ripetere in tutte le salse, politiche e culturali: e allora da dove si comincia, dal “diminuire le pene” a prescindere? Dai decreti “svuota carceri”? Dall’inventarsi varie scorciatoie (vedi braccialetti elettronici e obbligo di firma che, come la cronaca purtroppo ci racconta, si rivelano molto spesso tutt’altro che una soluzione adeguata e anzi occasione per reiterare i reati) e sconti che contribuiscano ad alleggerire la pressione insostenibile del numero dei detenuti su un sistema cha fa acqua da tutte le parti, a detta di tutti gli esperti del settore (per mancanza di edifici dedicati, di spazi adeguati, di direttori, di personale medico e assistenziale, di guardie carcerarie, senza i quali il nobile principio della rieducazione è nei fatti inattuabile)? Dal mandare a casa gli assassini, con tutto quello che ne risulta implicato e di cui abbiamo ampiamente parlato in precedenza, perché il Sistema non riesce a garantire la cura di patologie cardiache e malattie oncologiche in regime di detenzione, nel rispetto della certezza della pena e della doverosa giustizia anche nei confronti di tutte le vittime dei tanti efferati omicidi che vengono commessi?

È come se si pensasse, ad esempio, di risolvere i problemi della scuola cui la Taviani si riferisce – altra istituzione, come anche la Sanità, con le sue molteplici lacune, su cui pure si continuano a tagliare finanziamenti e delle cui “classi-pollaio”, tanto per dirne una, oggetto di “scandalo” nell’era Covid, non si parla più! – proponendo di “diminuire i compiti” degli allievi e largheggiando in voti facili e gratificanti per alunni e famiglie: sarebbe un punto di partenza credibile o non piuttosto una boutade demagogica e populista, ammantata di equivoco buonismo?

Con queste nostre esternazioni, di cui avremmo fatto volentieri a meno dato l’evento per noi tragico che ne è alla base, dopo aver ringraziato tutti coloro i quali attraverso i Social hanno espresso solidarietà ai familiari del prof. Dario Angeletti e incredulità per gli arresti domiciliari concessi a chi lo ha ucciso, pur se come applicazione di un regime cautelare piuttosto che di esecuzione di una pena, vorremmo in punta di piedi e umilmente raggiungere almeno due obiettivi: dare un contributo vivo e sofferto a una riflessione condivisa sulle scottanti questioni qui sollevate anche in termini più generali ; evitare che la condizione di “vittima” di reati di questa entità non solo rischi di scivolare in secondo piano, rispetto appunto ai “diritti degli imputati/detenuti”, ma diventi addirittura uno stigma a cui poter ovviare solo con la “rassegnazione”, sia sul piano umano che su quello giudiziario, nell’inconsapevolezza altrui degli effetti assolutamente devastanti che tali vicende hanno sulla vita e sull’equilibrio psichico di chi vi si trova coinvolto.