di Anna Alfieri
È opinione comune e condivisa che, nella storia millenaria dell’Urbe, la prima donna chiamata a reggere le sorti di Roma sia – in assoluto – Virginia Raggi, una ragazza coraggiosa e ardita, illuminata da una coroncina di cinque frizzanti stelline dorate. E di ciò, pur non avendo stellucce ideologiche dentro o intorno alla mia testa, sono sinceramente felice, giacché, come Virginia, anche io sono una donna.
Eppure, quasi a contrasto, sento il bisogno di raccontare ancora una volta la storia antichissima di un’altra ragazza testarda e perfino un po’ prepotente che per prima, nella notte dei tempi, governò Roma con pugno di ferro e la dotò di due grandi Re che, senza di lei, non sarebbero mai esistiti. Una ragazza nostrana che gli Etruschi chiamavano Tanaqvil e, i Romani, Tanaquilla.
Nella splendida, colta e felice Tarchna-Tarquinia, del VII secolo a.C., Tanaqvil era la donna che più somigliava alla sua città, perché era ricca, raffinata e ambiziosa. Inoltre, sapeva leggere i segni con i quali i Numi parlavano agli uomini e, soprattutto, sapeva interpretarli in modo da stornare da essi quanto si opponeva alla sua volontà, ai suoi progetti e alle sue ambizioni. Sposò Luchmon, figlio di una tarquiniese e di un famoso ceramista greco che, fuggito da Corinto, aveva inondato Tarquinia di bellezza e di denaro. Ciò nonostante, a Luchmon, etrusco imperfetto perché figlio di un greco, non era permesso – almeno a Tarchna – di compiere l’intera carriera politica. Per questo lo convinse a trasferirsi con lei a Roma, città giovane, ruvida ed informe, dove tutto poteva accadere. E fu proprio lei, Tanaqvil, che sapeva guidare anche i veloci carri etruschi da battaglia, a prendere le redini di un lento carpentum carico di vasi dipinti, di stoffe pregiate, di ori e di gemme e a dirigere a suo modo il viaggio che avrebbe cambiato la storia di Roma.
Sul Gianicolo, il primo colle romano che si incontra venendo dall’Etruria, accadde però uno strano prodigio: un’aquila piombò dal cielo ad ali spiegate e ghermì il copricapo di Luchmon. Poi, dopo averlo portato fino alle case celesti dei Numi, lo ripose sulla sua testa e sparì nell’azzurro. Luchmon ritenne infausto il presagio, ma Tanaqvil, temendo che il marito volesse interrompere il cammino, si gettò ai suoi piedi e, con voce sovrumana che si propagò nell’aria a larghissime onde, cantò un vaticinio: l’aquila era il messaggero degli Dei e aveva restituito a Luchmon il suo copricapo per significare che, con lui, stava entrando in città un Uomo Nuovo che avrebbe reso Roma potente ed eterna.
Infatti Luchmon, che era saggio, generoso e sapeva combattere a piedi e a cavallo più coraggiosamente degli altri Romani, divenne Re con il nome di Lucio (Luch-mon) Tarquinio (proveniente da Tarquinia) Prisco, il primo e più grande dei Re Etruschi-Romani.
In quel tempo Roma non era una vera città: sui colli tiberini esistevano solo sparuti gruppi di capanne ancora immersi nella preistoria, mentre nelle zone pianeggianti stagnava la palude. Re Tarquinio drenò il terreno, lo lastricò e lo adibì a luogo di incontro e di scambi, il futuro Foro Romano, poi costruì la Via Sacra, la Domus Regia, e il Tempio di Vesta. Successivamente modificò la struttura collinare del Campidoglio e vi pose le fondamenta del Tempio di Giove e, infine, delineò l’area del Circo Massimo destinandola alle corse dei cavalli: uno spazio immenso dove lui stesso celebrò il suo trionfo più grande. Un trionfo nel quale trasmise per sempre ai Romani tutti i simboli che a Tarquinia già da tempo davano forma e sostanza al potere. Tra questi, il fascio littorio con le verghe e con l’ascia, la corona d’oro e la quadriga gemmata del condottiero trionfatore, il suo paludamento prezioso e il suo trono. Poi, il suono marziale delle tubae tarquinie e le magnifiche danze rituali che incantarono tutti. Ma, soprattutto, donò a Roma lo scettro d’avorio sormontato dall’Aquila d’oro, simulacro di quella da lui incontrata al Gianicolo, che sarebbe poi diventato il simbolo stesso dell’Urbe, fin nelle terre più remote del suo Impero, l’imbattibile vexillum delle sue legioni. L’aquila eterna di cui nel XX secolo un marmoreo ed italico Dux fece, a suo modo, un futile uso illusorio.
Intanto nell’ombra magica e cupa delle sue stanze segrete, Tanaquilla tesseva instancabilmente i suoi intrighi. Come scrive Plinio il Vecchio, un giorno tra le fiamme del suo focolare fece apparire un misterioso membro virile che emetteva scintille procreatrici e Ocresia, la sua ancella fedele, ne rimase incinta. Il frutto di questo magico concepimento, figlio di una serva e del fuoco, si chiamò Servio Tullio.
Continua, invece, Tito Livio: “Poi accadde che, mentre il fanciullo dormiva, una corona di fiamme circondò la sua testa”. Tanaquilla vaticinò: “Quando verranno i tempi più oscuri per gli Etruschi, solo la luce che ora avvolge il capo di questo fanciullo potrà mantenere sul trono di Roma la stirpe regale dei Tarquini”.
Quindi adottò il Divino Bastardo, lo istruì come un principe e, di nascosto, lo addestrò ad essere forte come un leone, infido come un serpente nascosto nell’ombra, feroce come un lupo e tagliente come una lama d’argento affinché alla morte di Tarquinio Prisco si impossessasse per primo – con la forza o con l’inganno e perfino con il tradimento – del trono di Roma.
Infatti, quando il vecchio Re morì in una congiura di palazzo sulla quale tutto è lecito ipotizzare, Tanaquilla tenne nascosto il corpo del marito ucciso, e per lungo tempo regnò con pugno durissimo in sua vece. Solo quando tutte le fazioni vennero piegate ai suoi disegni, quando tutte le opposizioni furono sedate nel sangue, e solo allora, lei – magnifica potentissima e terribile – apparve ai Romani per annunciare che il grande Tarquinio era appena morto e che, per volere ineluttabile dei Numi, l’Urbe aveva già un nuovo sovrano, Servio Tullio, il figlio del fuoco.
Poi, finalmente placata, la prima, la vera signora di Roma, salì in Campidoglio per ringraziare gli Dei, anche quelli crudeli e nascosti di cui solo i tarquiniesi conoscevano il nome.
Un consiglio bibliografico: A. Carandini, Re Tarquinio e il Divino Bastardo”, Rizzoli, 2010.