La neve a Tarquinia secondo Bruno Blasi

Sulla neve a Tarquinia pubblichiamo una “chicca”: un articolo del maestro Bruno Blasi, scomparso lo scorso anno, ringraziando per la segnalazione e per il testo Tiziano Torresi, che di Blasi sta curando e studiando la bibliografia.

NEVE E NEVICATE

In Bollettino della Società Tarquiniense d’Arte e Storia 1996
n. XXV, pp. 217-222.

La neve a Tarquinia, nelle sue rarissime apparizioni o ad ogni suo riferimento, ha segnato negli annali di questo secolo, fasi della nostra storia. Perché noi della neve si è sempre avuta una vaga nozione, in virtù delle raffigurazioni di Achille Beltrame sulle copertine della “Domenica del Corriere”; che erano, in definitiva, i soli strumenti di diffusione a favore del popolo minuto. Ma anche grazie a qualche pagina dei libri di testo delle Scuole Elementari, quando non ci affidavamo, nelle veglie, alla viva voce di chi in famiglia era stato soldato nell’Italia settentrionale o di qualche superstite del conflitto mondiale del 1915-1918. Non se ne aveva però alcuni timore, abituati al detto dei contadini “sotto la neve, pane”. Anzi ci esaltavamo di fronte alle benemerenze dei cani di San Bernardo che soccorrevano i viandanti sepolti dalle valanghe.

Ricordo un inverno del 1924 quando venne inaugurata la nuova sede del Cinema Etrusco con la proiezione di un “kolossal” dell’epoca: “Messalina”. Ne impersonava il ruolo una delle “vamps” dello schermo italiano, Rina de’ Liguoro. Ogni sera era un pienone, sia per la procacità del personaggio femminile, sia per il piacere di sedere, in galleria, su certe poltroncine di velluto rosso, dolcemente molleggiate: ma soprattutto per ascoltare dal “golfo mistico” della sale, le esibizioni dell’orchestrina del maestro Ubaldo Pallotti dove Peppino Guerri, con un vibrafono, commentava lascivamente la canzone “Fiocca, la neve fiocca” che ci mandava in visibilio, anche se non si era mai toccato con mano uno di quei fiocchi che dondolavano nella nostra fantasia e che a Tarquinia apparivano, sì e no, ad ogni morte di papa.

Altro riferimento alla neve era la presenza degli spazzacamini. Ai primi freddi, calavano giù dal Trentino, da poco redento, a due, a tre, a quattro, con una sequela di garzoncelli neri come la pece, con scope, raschini ed ogni altro attrezzo atto alla bisogna. Siccome allora i camini andavano a legna, accadeva che i fumaioli, per l’accumularsi della fuliggine, prendessero fuoco; e allora tutto il rione, al primo allarme, accorreva con boccaloni e secchi colmi d’acqua per evitare il contagio alle case limitrofe. Solo a vederli in giro, tristi e silenziosi, ad offrire il lunario di Barbanera da Foligno e la loro disponibilità anche per un tozzo di pane, ci veniva alla mente una canzonetta del tempo dove un piccolo spazzacamino, scacciato, rimpiangeva la carezza soffice e lieve della madre che non aveva più e che ritrovava soltanto nella neve.

Ricordo l’impressione che provai una mattina, appena alzato, di fronte a un paesaggio insolito, fiabesco. Di colpo ero passato a quella reazione che si ha allorquando si esce da uno stato di fantasia. Da dietro i vetri della cucina, le torri, i tetti, le altane, i campanili mi apparvero avvolti nel bianco della neve.

Mia madre, prima di spedirci a scuola, era solita prepararci una tazza di latte che non piaceva a nessuno. Per cui vi mescolava un po’ di polvere di cacao che ci dava un vago sapore di cioccolato. Però quello vero, denso, scuro si gustava solo nei rinfreschi dei matrimoni in famiglia, con abbondanti biscotti all’anice. Quella mattina però il pacchetto del cacao era vuoto cosicché mia madre mi coprì ben bene perché facessi un salto fuori per acquistarne uno nuovo. Il negozio era sul Corso, affiancato all’arco cosiddetto “del Pesce”, gestito da una vecchia signora, Teta di Sesto, che vendeva di tutto. Anche il cacao che portava come reclame la figura di un pellerossa, con su scritto MONTEZUMA. La tentazione di toccare la neve e scagliarne qualche pallata fu tale che indugiai una decina di minuti prima di rientrare a casa. Ma le dita non me le sentivo più. Non potevo tenere in mano nemmeno il cucchiaino. Mia madre me le fece immergere in una conca d’acqua molto calda perché potessi riacquistarne l’uso. Provai dolore come se stringessi un cuscinetto di aghi, probabilmente per un fenomeno di reazione fisica. E non potei trattenere le lacrime.Questo fu il mio primo contatto con la neve.

Nel 1929, fuori Porta Firenze, ov’è oggi un giardino pubblico, approdò il circo Zavatta che piantò tendone e alcuni carrozzoni in quell’ampio piazzale sotto le mura, più noto come il “Bucone”, che si era andato riempiendo per anni e anni con i rifiuti solido urbani, assai scarsi a quel tempo per la modestia dei consumi alimentari. Era prossimo il Natale. Venne giù la notte una tale bufera di neve quale non si era mai vista. Commiserammo quella gente costretta a non sortire nemmeno dall’angustia dei propri carrozzoni, mentre il paese che noi vedevamo da dietro i vetri delle finestre, era piombato nel silenzio come sotto una campana di vetro. Il giorno dopo non vi dico le corse, le pallate, gli scivoloni. Fu tutta una festa per noi ragazzi, insensibili al tormento del freddo e dei geloni, indifferenti al disagio di chi era venuto a svernare in questa zona temperata, e consolati la sera dal calduccio dei camini sempre accesi a sgranocchiare i dolcetti fatti in casa fra una sorsata di brulé e una partita a tombola.

Ma al miracolo della neve fecero riscontro giornate splendide di sole quasi primaverile che fecero sbocciare insolitamente i mandorli e le mimose lungo il costone di Valverde. A farla breve, il circo Zavatta sostò per più di un mese, costringendo i proprietari a inventare nuovi giochi e nuove attrazioni. Alla bellezza di Fiorella, leggiadra cavallerizza, alle sortite del pagliaccio Florian, assai divertenti, fece fronte Maurizio, un abilissimo saltimbanco, che in un sol balzo saltava tre carrozze, affiancate una all’altra, prese in prestito da Gasperino, Umberto La Puzza e Giovanni del sor Sante, ultimi “botticellari” della città.

La compagnia del circo Zavatta fu talmente assorbita da meritarsi quasi quasi la cittadinanza onoraria. Ogni sera al botteghino c’era la fila, comprese le adolescenti che tifavano non tanto per Maurizio quanto per il fratello più giovane che, quando passava fra il pubblico a vendere la sua fotografia in costume da trapezista, smaniavano per accostarlo e sentirne l’ansito per l’esercizio compiuto. Quando il circo Zavatta levò le tende, fu quasi un lutto cittadino.

Una mattina del 1933 apparvero sui muri della città parecchi striscioni con su stampata una frase misteriosa: “Arriva la grande tormenta”. La gente si domandava l’un l’altra che cosa volesse dire quella minaccia. Poi si venne a sapere che Francesco Saraga, proprietario di una avviatissima macelleria, sulla strada che da via delle Torri porta oggi al nuovo Ospedale, inaugurava un nuovo cinema all’aperto. Quell’annuncio riguardava un altro film interpretato da un’attrice russa, Olga Tschechowa, girato in Siberia. La grande tormenta invece la subì lui, il proprietario, per la costante inclemenza della stagione. E da quel giorno il lungo tratto che collega la macelleria al nuovo Ospedale, venne scherzosamente battezzata dal popolo “Via dei due macelli”.

Passarono anni e anni e la neve non si vide più, se non sullo schermo. L’Opera Nazionale Balilla, grazie ai documentari cinematografici e ai films di Luis Trenker, regista di lingua tedesca, fece conoscere ai giovani avanguardisti lo sport invernale dello sci, dell’alpinismo, degli slittini con gli inevitabili capitomboli. Nacquero così la passione per la montagna e l’inno dello sciatore.

Io ne rimasi così affascinato che quando dovetti far domanda per frequentare il corso per allievo ufficiale, scelsi appunto una scuola nel Piemonte, a Bra, ignaro della sorte e dei disagi a cui andavo incontro. Una volta lassù, a tutto si pensava fuor che alle sciate e alle escursioni sul Monte Bianco che si vedeva luccicare lontano come un miraggio. Una disciplina ferrea ci inchiodava, dalla mattina alla sera, nelle esercitazioni più varie, a contatto dei muli e dei cavalli. Il clima della neve lo si soffriva nelle lunghe attese nel cortile della caserma, in tenuta di tela, sotto il puzzo stagnante delle concerie. Per fortuna mi ammalai di appendicite e due mesi dopo venni rispedito a casa in convalescenza. E il mio entusiasmo per la neve, finì lì.

Ma una calamità più grossa della neve, era alle porte: la guerra del 1939. E se la neve non scese su di noi, fummo noi ad andarle incontro in terra straniera. La mia Divisione, la Pasubio, era destinata ad inviare truppe di rincalzo in Russia. Ma per puro caso, venni spedito in Egeo, nell’isola di Creta, dove la neve non si vedeva nemmeno sul monte Ida, a quota 2.500. Qui ci sorprese l’armistizio del 1943, e tutti gli ufficiali, me compreso, vennero spediti, via mare, al porto del Pireo, ad Atene. Da qui, ammassati su di una lunghissima tradotta militare, attraversammo tutti i paesi balcanici, l’Austria, la Germania per arrivare, dopo ventotto giorni, in Polonia, oltre Varsavia, nel campo di concentramento n°366 di Biala Podlaska.

La neve prese ad ammucchiarsi sulle nostre baracche di legno e ci fu compagna per tutto l’inverno. Ricordo un anziano colonnello che una mattina si presentò a torso nudo per lavarsi con manciate di neve, masticando ciuffi d’erba strappata alla terra del campo, più che per fame, per una dimostrazione di spavalderia militaresca. Ci mancò un pelo che non ci rimettesse la pelle.

Nevicate si sovrapposero a nevicate. Quando si veniva radunati ogni mattina per il controllo giornaliero, sostavamo per oltre mezz’ora a battere i piedi sul terreno, prima che il comandante del campo apparisse e il conto alla fine tornasse.

Rammento che una notte, interminabile come tutte le altre, io e un mio compagno, avvolti in una coperta, ci mettemmo, a dovuta distanza dai reticolati, a chiedere, alle sentinelle nel loro idioma, del pane in cambio di biancheria, di scarpe, di oggetti preziosi e di ogni altra merce di scambio. Io facevo l’amore con un orologio nuovo di zecca che un collega mi aveva portato dall’Italia il giorno prima dell’armistizio. Fu come l’addio di Colline alla vecchia Zimarra. Bisognava sopravvivere. Lo barattai con due chilogrammi di pane, mezzo chilo di burro, un sacchetto di fagioli secchi e una fetta di lardo. Il tutto mi confortò per circa un mese.

Ai primi di dicembre, io e il mio collega di sventura prendemmo una decisione: sottrarre dalla razione assai  scarsa di ogni mattina, una delle patate più piccole, sostituendole di giorno in giorno perché arrivassero commestibili fino al giorno di Natale. E ne feci una tale scorpacciata che mi dovetti sdraiare sul giaciglio a bocca aperta, a fare profondi respiri per non dover rimettere quel che il mio stomaco non era abituato a contenere e che mi era costato tanto sacrifici.

Intanto la neve seguitava a tenerci compagnia mentre nelle baracche circolavano le voci più varie, riguardanti la fine della guerra, preconizzata di volta in volta da alcuni ufficiali esperti nello spiritismo. Che era, in definitiva, una forma come un’altra per non perdere la speranza di ritornare in patria. Ne fu vittima il tenente Steccanella che, credendo a quelle previsioni, metteva da parte, nel suo stipetto, l’intera razione di pane giornaliera sotto forma di fette abbrustolite sulla stufetta di torba, per poterne disporre, secondo un suo calcolo, a volontà nel giorno della fine della guerra. Mentre lui la notte sentiva gli stimoli della fame e i crampi allo stomaco, c’era qualcuno che, tormentato dagli stessi stimoli, allungava la mano nel buio della baracca. Non si conobbe mai il colpevole, ma si cercò di ravvisarlo in uno di quei fumatori accaniti che vendevano la propria razione di pane in cambio dei tre “papirowski “ che facevano rintorzolare il fiato ogni volta che il fumo attraversava la faringe.

Intanto ogni mattina c’era nel campo una cerimonia funebre, con tanto di squilli di tromba e con la preghiera del cappellano, per chi non era riuscito a superare le sofferenze di un campo di prigionia. Poi tutto diventò abituale, come la neve.

Fu il giorno della candelora del 1956 che la neve la rividi, senza più emozione ma con disagio, qui a Tarquinia. Fu una vera tormenta. Ci si affondava fino al ginocchio, per seguire il nostro parroco, don Emanuele Serafini, che ci sguinzagliava casa per casa delle famiglie più facoltose, a chiedere aiuti in denaro o in viveri a favore di chi non trovava lavoro. Chi poco aveva, dette molto di più di chi aveva in sovrabbondanza. E fu la sola occasione che mi fece considerare la sordità e l’avarizia di chi seguitava a tenere il cuore nel proprio forziere. Come Dio volle, si ritornò alla normalità: la terra seguitò a germogliare e a nutrire, nella buona e nell’avversa stagione, animali e persone.

Giunto a questo punto, mi pare inutile seguitare a parlare della nevicata di fine 1996, anno per di più bisestile che, secondo la credulità popolare, è sempre portatore di sinistri eventi.

Per me essa non rappresenta più una novità. Anzi un disagio. E con me, credo, siano dello stesso parere coloro che sono avanti negli anni; ad eccezione dei giovani e dei più piccini per i quali la neve è sempre indice di novità e di divertimento. Ma pure un sovraccrescere della nostra memoria e un avvertimento della morte, subdola e silenziosa come la neve, che tutto avvolge e tutto annulla nel più tombale dei silenzi.

Bruno Blasi