Su cortese e pressante suggerimento di due amici molto curiosi aggiungerò qualcosa al mio articoletto “Il velo di Letizia Bonaparte “– apparso su L’extra nell’aprile scorso – in cui raccontavo che Madame Letizia e suo fratello il cardinale Fesch, rispettivamente madre e zio di Napoleone, vennero tumulati in Corneto per precisa e convinta volontà testamentaria di entrambi. Articolo che gli amici suddetti considerano lacunoso perché non fornisce sufficienti notizie sull’alto prelato imperiale il quale, a loro insindacabile e patriottico modo di vedere, deve essere invece considerato, a tutti gli effetti, un cittadino cornetano “per libera scelta di sepoltura” e quindi incluso d’ufficio nella già folta schiera dei cardinali nostrani, insieme a Giovanni Vitelleschi, Adriano Castellesi, Giovanni Francesco Falzacappa, Angelo Quaglia, Sergio Guerri e qualche altro porporato sulla cui cornetaneità gli storici, ahimè, non hanno ancora trovato un accordo. Perciò eccomi qui di nuovo con la penna in mano per fare contenti gli amici.
Dunque: Joseph Fesch, il nostro presunto concittadino per sepoltura, nacque ad Aiaccio nel 1763 e nel 1785 venne ordinato sacerdote ad Aix-en-Provence, dove aveva compiuto i suoi studi. Pochi anni più tardi, però, esaltato dalla Rivoluzione Francese, gettò allegramente alle ortiche il suo abito talare e si dedicò anima e corpo agli affari. Affari redditizi ma oscuri, sulla cui vera natura la Storia non è riuscita ancora a fare piena chiarezza. Ha però accertato, la Storia, che nel 1796 e nel 1797 il Nostro ricopriva saldamente la carica di Commissario dell’Armée francese durante la Prima Campagna d’Italia. La leggendaria Prima Campagna nella quale Napoleone, allora giovanissimo, stupì il mondo con la grandezza del suo folgorante genio militare assoluto.
Bonaparte era però anche un pratico genio politico. Perciò ordinò allo zio di rientrare presto e utilmente nel grembo della Santa Chiesa Cattolica Romana. Zio Fesch obbedì e, senza battere ciglio, questa volta gettò alle ortiche la sua bella divisa da soldato e indossò nuovamente (quasi come Julien Sorel nello standhaliano Le Rouge et le Noir) l’abito nero da prete.
Fu una scelta grandiosa perché, tra intrighi e complotti degni di un romanzo di Dumas padre, in pochi anni diventò – e come poteva andare diversamente? – Vescovo di Lione, Cardinale di San Lorenzo in Lucina, onnipotente ambasciatore francese a Roma con Chateaubriand per segretario, spina nel fianco del governo pontificio, suntuoso collezionista di opere d’arte, Senatore di Francia, Conte di Parigi, Gran Croce della Legion d’Onore, Toson d’Oro del re di Spagna, Cappellano dell’Impero e Primate di Gallia. Tutto questo perché zio Fesch, così dice la Storia, era intelligente, vanitoso e perfino teatrale. Insomma magnifico come la Chiesa Romana e sfarzoso come l’Impero francese. Infatti, avvolto in paramenti tessuti con l’oro, svolse un ruolo centrale e vistoso nella cerimonia dell’incoronazione di Napoleone a pochi passi di distanza da Papa Pio VII, accasciato in un piccolo trono un po’ defilato. Nel 1810, in abiti mille volte più ricchi di quelli degli sposi, celebrò le nozze del nipote con Maria Luisa d’Austria. L’anno successivo battezzò, con suo inimmaginabile gaudio, il piccolo Re di Roma, frutto di quell’unione imperiale.
Poi, all’improvviso, tutto cambiò, e ciò accadde quando al culmine di una sua sconvolgente conversione ideologica, Fesch – pubblicamente pervaso da un sentimento di mistica gioia – durante il Concilio Nazionale che lui stesso presiedeva, invece di giurare fedeltà al nipote imperatore, pronunciò quasi in estasi, e nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la formula tridentina di assoluta sottomissione al Papa di Roma, prigioniero di Bonaparte a Savona. Un fulmine a ciel sereno che trafisse Napoleone anche negli affetti. Di conseguenza l’ira dell’Imperatore nei confronti dello zio si trasformò in una persecuzione implacabile. Persecuzione che il nostro Fesch, spogliatosi volontariamente di tutti gli onori imperiali e ritiratosi dalla politica e dalla diplomazia, sopportò serenamente. Più tardi si ritirò a Roma a palazzo Falconieri a via Giulia e lì, circondato dalle sue opere d’arte, si dedicò alla meditazione e alla beneficenza.
Nel 1839, diciotto anni dopo la scomparsa di Napoleone a Sant’Elena, Fesch morì in pace con se stesso, col mondo, con Dio e perfino con la memoria del suo dispotico nipote che, in realtà, non aveva mai smesso di amare. Ricambiato. Fu sepolto a Corneto accanto al corpo di sua sorella Letizia. Così, più o meno, raccontano ufficialmente i libri di storia.
Ma noi, noi istancabili frequentatori di archivi paesani, di vecchi palazzi polverosi e di luoghi claustrali – noi cornetani – di Fesch sappiamo molto di più. Sappiamo che amò veramente la nostra Città e che profuse un’enorme quantità di denaro, anzi “vistose somme di scudi”, per costruire a sue spese l’ala grande, rivolta al mare, del nostro Monastero della Passione, per poi arricchirlo di orti e giardini segreti.
Sappiamo soprattutto che a Corneto Fesch trascorreva giorni in perfetta letizia. La stessa contagiosa letizia con la quale io ora trascrivo la prima parte di una lettera da lui inviata alla superiora dell’Ordine:
Roma, li 12 di giugno 1824
Dilettissima figlia in N.S.G.S.
Mi partij da Corneto rasserenato dalle nostre care figlie passioniste. Appena giunto a Roma, conosciuto il mio ritorno, il vostro degnissimo vescovo venne a vedermi, ma sapeva già tutto ciò che avrei potuto dirgli sulla mia dimora a Corneto. Ne dimostrò grandissima compiacenza e ne rise moltissimo. Con ragione poteva gloriarsi, il pastore di tante così buone e liete pecorelle, perché non mancai io stesso di rendere giojosa testimonianza di tutto e di tutte…
La lettera si conclude, tra mille benedizioni, con la firma del cardinale. Una strana firma piccola piccola, senza svolazzi, come chiusa in se stessa. Chiusa, ruvida e colta, come a quei tempi era forse anche Corneto.