Riproponiamo un pezzo di Anna Alfieri già pubblicato qualche anno fa
In un tempo ormai alquanto lontano, Bruno Blasi – che incontravo spesso al forno o dal giornalaio – mi faceva sempre una strana domanda: “Lei, sa recitare?” “Purtroppo no – rispondevo io meravigliata, perplessa e perfino un po’ sospettosa – non so recitare, non so ballare e non so nemmeno cantare”.
Un giorno però, proprio davanti all’archetto dei carabinieri, mi feci coraggio: “Perché, Maestro, continua a farmi questa domanda?”. “Vede, – mi spiegò Blasi – lei mi ricorda una donna sulla quale vorrei scrivere un testo teatrale. A Corneto la chiamavano La Calzolara perché era sposata con un ciabattino. Era una popolana, ma aveva un bel portamento e sono sicuro che lei, Anna, potrebbe interpretare benissimo il suo ruolo”.
Questa risposta inattesa mi divertì ma, forse per l’accenno a quell’ipotetico bel portamento, essa riuscì perfino a lusingarmi. Infatti, per una frazione di tempo abbagliante ma breve come il lampo di un temporale, quel giorno immaginai me stessa mentre, nei panni un po’ maliziosi di una pettoruta e spavalda Filomena Marturano di stampo tarquiniese e di animo nobile, raccoglievo gli applausi del pubblico al Cinema Etrusco che a quel tempo era anche un teatro.
Siccome però io non volevo e non sapevo ‘realmente’ recitare, ballare o cantare, e per di più avevo molte altre cose da fare nella vita reale, le luci di quella mia improbabile ribalta immaginaria si spensero quasi prima di accendersi, e La Calzolara mi fuggì via dalla mente.
Credevo per sempre. Ma, pochi giorni orsono, dopo tanti anni di oblio, quella donna è riemersa all’improvviso dal fondo oscuro dei miei ricordi nascosti e si è impossessata di me come se volesse farmi scrivere qualcosa su di lei. Ma cosa mai avrei potuto scrivere? Non sapevo chi era, come era, come viveva, dove abitava e nemmeno cosa faceva. Eppure lei, che fu donna sicuramente assai prepotente, mi si era ormai accampata nel cervello e, senza chiedermi nemmeno il permesso, non mi lasciava più in pace.
Come sempre mi accade, ho cominciato ad aggirarmi sola sola nelle strade più segrete di Tarquinia, fiutando qua e là l’odore di vecchie storie paesane; ho sfogliato i giornali ingialliti dal tempo, ho interrogato i cornetani dalla memoria profonda; ho frugato e rifrugato negli archivi che mi piacciono tanto, ma – qualunque cosa facessi – la mia Calzolara, misteriosamente, si divertiva a sfuggirmi come un’ombra negli angoli scuri, quasi per farmi un dispetto. Finché un giorno, quando ormai non credevo più di trovarla, tac, mi è apparsa. E mi è apparsa nel luogo più adatto, cioè nei ricordi di Bruno Blasi in persona, raccolti in un libro: “Lo Storiaro, vicende e racconti di una Maremma scomparsa”, paragrafo 7, pagine 32-33-34. Tre paginette che cominciano bene:
Le donne a Corneto
per chi le conosce
son come briosce
col latte e caffè.
Odorano in bocca
di dentro e di fuori
pei nostri signori
son rari boccon.
Tre paginette apparentemente fresche come rose che, però, per la ‘mia’ Calzolara, diventano presto molto cattive. Infatti, continua il Maestro, “a Corneto di donne ‘acce’ ce ne era stata più d’una – e furono la rovina di molte famiglie. Inoltre, come se non bastassero le nostre, ci venivano pure da fuori. Tanto che quando arrivò La Calzolara, una stacca di montagnola nera e ricciuta che i complimenti te li strappava cogli occhi, gli zebinotti di qui le si misero intorno in cerca di avventure… Ma se Ivonne era di palato fino – continua Bruno – La Calzolara gli uomini se li prendeva tra la massa, come le pareva e piaceva; e nei luoghi più strani e fuori mano. Perché, con tanti babbioni bavosi in giro, per lei, in tempi di fame, c’era da mangiare con la forchetta d’oro”.
Tre paginette che si fanno sempre più pesanti. “A quel tempo – spiega ancora il Maestro – nelle strade le lampadine a carbone si potevano contare sulle dita di una mano e non duravano, con tutte le fionde che i ragazzini si costruivano, più di una giornata. Che pacchia allora incontrarsi tra il lusco e il brusco per darsi una fatta su e una botta e via”.
“In quell’anno del fattaccio – e qui Blasi gira il coltello nella piaga, la mia personale piaga di lettrice ormai disillusa – in quell’anno del fattaccio, i medici dell’ospedale non facevano che lamentarsi per l’espandersi di una tal malattia; e le suore, che capirono il giro, non potevano star zitte dall’indicare la causa del diffondersi di quel morbo così grave e contagioso nella Calzolara che non guardava in faccia proprio a nessuno. E finché erano giovanotti, poco male, ma quando s’aveva a che fare con padri di famiglia…”.
Tre paginette per scendere negli inferi: “Neanche quella sera – infierisce il Maestro – neanche quella sera, la Calzolara seppe dire di no a un appuntamento fissato all’arborata dietro la chiesa della Trinità. Tanto, chi sarebbe andato a passare lì dietro dove pure la strada moriva? L’incontro fu breve e concitato e l’amante contagiato e inguaiato, ma forse anche geloso, su quella strada morta fece morire pure lei, squarciandole la gola con un trincetto”.
Fu così che la ‘mia’ Calzolara nera e ricciuta – che il Maestro, forse per disprezzo o forse per cristiana pietà non ha mai voluto chiamare per nome – venne coperta con un telo di sacco. In terra, “fra l’abside della Trinità e il cancello di un orto con due carabinieri a coppia, piantati lì a fare la guardia”.
Qui, orrendamente, termina la storia di quella donna dal bel portamento che inutilmente ho inseguito per giorni e giorni in ogni angolo della nostra città. Qui, amareggiata, chiudo il libro di Blasi e qui, tristemente, metto fine, senza neanche rileggerlo, a questo mio articolo che avrebbe voluto essere lieve e giocoso.
N.d.R.: le tre foto scelte a corredo dell’articolo rappresentano, naturalmente, non La Calzolara, ma Francesca Bertini, diva del cinema muto.