di Luciano Marziano
L’assimilazione dei beni culturali al petrolio, cioè a un minerale per definizione destinato al consumo e all’esaurimento, ha coinciso con la presenza al Ministero per i beni culturali di modestissimi ministri.
Ad avanzare tale balzana idea è stato Mario Pedini (1976-78) primo di una serie di responsabili di un dicastero che pur aveva avuto come fondatore un autorevole personaggio quale Giovanni Spadolini. Si pensi a un Dario Antoniozzi (1978-79), a un Nicola Vernola (1982-83), a un Antonino Gullotti (1983-87), a una Vincenza Bono Parrino (1988-89) protagonista di irrefrenabile comicità che trovava il suo punto più alto (o basso ?) in una intervista rilasciata a Paolo Guzzanti su Mercurio, supplemento culturale del quotidiano La Repubblica,tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta del secolo scorso, intrisa di “pier sospinto”, di “borzetta “.
L’attribuzione ai nostri beni culturali di una qualificazione petrolifera, ebbe una sorta di consacrazione nel corso dei gaudenti anni ottanta, della Milano da bere, ad opera di un disinvolto politico quale Gianni De Michelis, all’epoca famoso per la folta zazzera di capelli unti, per essere un assiduo frequentatore di locali notturni dei quali addirittura redasse una guida , per l’organizzazione di sontuose feste in costume nel suo palazzo veneziano. Estroso uomo pubblico, autorevole anche perchè ricopriva la carica di ministro nel governo presieduto dal socialista Craxi, De Michelis, razionalizzava l’analogia tra bene culturale e petrolio, evidenziando “ l’importanza centrale della cultura… nella società verso cui andiamo, così come l’ha avuta la risorsa petrolifera nella società industriale” nella convinzione che “l’Italia è un paese ricco di risorse culturali, probabilmente più ricco di qualsiasi altro, se siamo davvero una sorta di Arabia Saudita in questo campo”.
Posti i beni culturali sul piano della metafora mineraria, gli stessi venivano definiti, con sapore di immobilità mortuaria, giacimenti, mitigati da una velleità di movimento con la pensata di farne dei cosiddetti attrattori culturali: operazione sulla quale si investirono notevoli risorse di pubblico denaro che risolsero privatissime situazioni di crisi finanziaria anche attraverso l’elaborazione di eventi con al centro l’allestimento di costose mostre – pratica tuttora corrente- delle quali, al di là della spettacolarizzazione, non si riesce a percepire nessi e senso tali che, eliminato lo sterile aspetto dell’intrattenimento, siano forieri di organicità intellettualmente e criticamente incisiva.
Il sovraccarico di metafore aprì la via a quel deprimente luogo comune di innestare i beni culturali in una prospettiva di speculazione commerciale mutuandone il lessico relativo attestato in termini come estrazione, stoccaggio, riferito alla formazione di banche dati, fino a pervenire al concetto di sfruttamento che, come acutamente segnala Tomaso Montanari, per il Grande Dizionario della Lingua Italiana, vuol dire “privare un terreno degli elementi nutritivi, usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico, depredare una regione delle sue risorse naturali, vivere alle spalle di qualcuno o abusare di qualcuno o qualcosa”.
In questo contesto, a preminente attenzione per i risvolti economici, si incardina pervasivamente una terminologia di pura estrazione commerciale come brand, mercato. L’ingresso non selezionato dei privati nella gestione dei beni culturali , avendo quale finalità primaria ed esclusiva la produzione di reddito, è in grado di condizionare scelte ed interventi.
L’acme di questa ambigua situazione venne raggiunto nel giugno del 2013 allorchè, in Ponte vecchio di Firenze, venne allestita una elegantissima cena ( oramai le cene per definizione sono eleganti) per ricchi signori del jet set, della finanza internazionale alla quale i fiorentini , in fondo titolari di tale altissimo bene, assistettero dalle lontananze dei Lungarno come dei nuovi accattoni.
Sono queste utilizzazioni anomale, contraddittorie, verrebbe addirittura da dire, innaturali dei beni culturali che, purtroppo, si teme che si prolungheranno ancora nel tempo per interessi, insipienza anche di taluni pubblici amministratori chiamati a gestire beni dei quali non si conosce l’entità effettiva e, quando qualche parvenza di conoscenza sembra affiorare, questa è intrisa di luoghi comuni, di improbabili e trite sedimentazioni valutative.
Pare, tuttavia, che all’orizzonte qualcosa si muova. Alcuni amministratori locali cominciano ad avanzare riserve e a porre distanze che pervengono a salutari rifiuti. Significativo il recente caso di Brescia il cui sindaco ha chiuso la porta in faccia a Marco Goldin che aveva proposto l’ennesima faraonica mostra sugli Impressionisti (poverini sono quasi diventati degli street food dell’ arte!! ). Come è noto, il Goldin è uno degli organizzatori di eventi dai quali ricava redditi altissimi in gran parte ripianati dai bilanci delle amministrazioni locali e la cui qualità operativa fu ben individuata in un puntuale articolo redatto da Helga Marsala per Artribune del 3.02.2014 in occasione della presentazione a Bologna della tavola della Ragazza con l’orecchino di Johannes Vermeer. Questo diceva la Marsala: “La mostra resta una buona impresa di marketing, ma il progetto scientifico, la ricerca, l’articolazione di un discorso va tutto in secondo piano. Quel che resta è lo sfruttamento di un’immagine nota per far numero. E’ il limite del successo di Goldin più manager che studioso”.
E’ questo il punto critico, oserei dire patologico, della maggior numero delle manifestazioni espositive che ha colto bene il sindaco di Brescia allorchè ha motivato il rifiuto alla proposta Goldin constatando come le iniziative se, a volte, portano ondate di attenzione, in ogni caso, pur sempre effimere e passeggere , compaiano e poi scompaiano, non lasciando nulla al sistema paese . Anzi solo buchi e necessità di restauri dei quali non si cura nessuno. Emerge, di conseguenza, la necessità di “guardare a lungo termine in modo da produrre eventi che per valore scientifico e territoriale” abbiano un rapporto con la città.
E questo è salutare modo di fuoruscire dalla strettoia di considerare l’arte e la cultura in genere come una delle tante manifestazioni di happy hour.