A poche ore dalla premiazione del concorso di poesia “Spartaco Compagnucci”, organizzato dalla Pro loco Tarquinia e dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia, proponiamo un racconto che Anna Alfieri ha scritto nelle scorse settimane proprio per l’occasione
Quell’omaccione baffuto con il volto accigliato, quel cornetano verace ed esagerato, quel buttero vistoso e pesante come John Wayne che cavalcava nelle praterie del West mi intimidiva. Perché nelle giostre nostrane inalberava lo stendardo della sua contrada con l’orgoglio di un vincitore della battaglia di Lepanto e soprattutto perché si chiamava Spartaco come lo schiavo ribelle che aveva fatto tremare Roma. Inoltre ero convinta che, dall’alto del suo cavallo e all’ombra delle sue sopracciglia intricate, non si fosse mai accorto che io esistessi davvero.
Invece, quando lo incontrai per la prima volta nei locali della STAS, mi salutò familiarmente dicendomi: “Buonasera, Annarè!”. Annarè come nessuno al mondo mi aveva mai chiamato, nemmeno mia madre quando ero bambina, nemmeno quel tal ragazzo che voleva essere affettuoso con me.
Il motivo di quel primo incontro con Spartaco era serio perché lui, ormai anziano, sentiva il dovere morale di raccontare con chiarezza un episodio accaduto in paese durante l’occupazione tedesca. Un episodio controverso nel quale alcuni giovani di Tarquinia avevano perso la vita e del quale lui, allora ventiduenne, era stato testimone oculare.
Spartaco aveva già abbozzato un articolo da pubblicare sul Bollettino di Arte e Storia ma, poiché voleva essere chiaro e cristallino, sperava che io lo aiutassi a non sbagliare nemmeno una parola, nemmeno un ricordo, nemmeno un respiro, nemmeno un alito di vento. Ma quell’articolo era già così perfetto nella sua genuina imperfezione, nella sua onesta semplicità, nella sua umana correttezza che io, commossa, non cambiai nemmeno una virgola e mi limitai a complimentarmi con lui.
“Vedi, Annarè – mi raccontò quella sera – dopo l’8 settembre del 1943 Tarquinia era diventata un inferno dove tutti avevano paura dei tedeschi occupanti. Molti si dettero alla macchia per salvarsi dalle loro retate o per organizzare qualche piccola azione di resistenza. Perfino io, che non ero un partigiano, mi imboscai con la scusa di vangare i carciofi dei Viscarelli che mi pagavano a giornata. Alle Guinze, cioè nelle terre di Federico e di Titta Marini, si erano accampati anche alcuni miei amici con i quali andavo a trascorrere qualche bella serata oppure a rubare qualche polletto per sfamarci.
La mattina del 14 ottobre mi alzai di buon’ora e guardandomi intorno vidi molti tedeschi che, scesi dai camion e armati fino ai denti, salivano direttamente verso di noi in perfetto silenzio, come per un agguato già preparato con precisione. Uno di questi, piccolo piccolo, brutto come la fame, con le granate appese alla cintura mi puntò il mitra, poi si accorse dei miei amici che, sorpresi nel sonno, scappavano a destra e a sinistra, voltò l’arma, prese la mira e fulminò Romeo Centini con un colpo alla schiena. Il “poro” Romeo che stava correndo – proseguì Spartaco – fece una piroetta in aria, gridò “Mamma mia!” e cadde per terra con il viso meravigliato rivolto verso di me.
Quel tedesco piccolo piccolo e brutto come la fame nemmeno lo guardò, anzi mi consegnò ad un suo camerata ed inseguì gli altri sparando e continuando ad uccidere. “Il tedesco” al quale ero stato consegnato era in realtà un austriaco buono. Mi fece vedere le foto della sua famiglia e poi mi lasciò scappare sparando qualche colpo in aria senza volermi colpire ma per rassicurare i colleghi di avere provato a fare il suo dovere. Io, Annarè, mi buttai in mezzo ai rovi e ai cardi come un tasso e riuscii a tornare in paese coperto di spine e di graffi e con i vestiti a brandelli. Solo la cinta di cuoio era rimasta intatta. Al vedermi qualcuno si spaventò. E quando piangendo dovetti raccontare quello che era appena successo Tarquinia impazzì di dolore”.
L’articolo fu pubblicato sul Bollettino della STAS n. 32 del 2003 con il titolo “Tarquinia, 14 ottobre 1943: Spartaco Compagnucci, testimone oculare”. Era un racconto semplice ma avventuroso che cominciava a Trieste dove Spartaco era ancora uno spensierato marinaio addetto agli idrovolanti della squadriglia di Italo Balbo e si concludeva con l’eccidio di Tarquinia. Anzi, si concludeva con un galante ringraziamento per il mio contributo – che in realtà non c’era mai stato – e, più in basso, con due righe scritte in rima perchè Spartaco era un poeta:
A ottantadue anni sono arrivato. Questa è la gioventù che ho passato.
Anna Alfieri