di (in ordine alfabetico) Anna Alfieri e Carla Valdi
Giovan Battista Marini, Titta, nacque a Corneto-Tarquinia il 6 luglio 1902 da Nazareno Marini di Giovanni Battista e da Maria Campioni, entrambi cornetani. Ebbe un fratello, Giulio Federico, e una sorella che morì prematuramente.
Una leggenda familiare racconta di un Titta bambino prodigio dagli occhi cerulei che con l’acutezza della sua intelligenza affascinò talmente una signora romana da spingerla a volerlo rapire. Il tentativo non riuscì e, per fortuna della poesia dialettale, il pargolo biondo rimase a Corneto.
La famiglia Marini abitava in una casa di sua proprietà in via di Porta Castello ed era considerata benestante, sia per il possesso di alcuni terreni, sia per l’apporto di una considerevole dote da parte della madre, donna minuta ma dal carattere di ferro, capace di tenere il soldo e di aumentare il capitale comune. Babbo Nazareno, molto meno parsimonioso della moglie, morì in età non avanzata e il giovane Titta, convinto che la sola vista della terra da coltivare gli procurasse i calli agli occhi, per disfarsi immediatamente dal rischio di un suo eventuale lavoro agricolo, vendette subito la sua parte di eredità.
L’improvvisa e conseguente disponibilità di denaro liquido fece di lui un giovanotto eccentrico, un dandy vagabondo impegnato a rifornirsi di giacche e cravatte costose e di camicie speciali. Pantaloni di lino immacolato e scarpette bicolori per l’estate, cappelli a bombetta e ghette grigie per l’inverno e, soprattutto, una grande quantità di pomate per tenere a freno, senza risultati visibili, la sua chioma leonina. In più, cosa sorprendente, acquistò una macchina da corsa di color rosso fuoco che alzava ovunque un polverone giallastro e che, con il suo rombo, spaventava non solo le galline e le pecore di Corneto e dintorni, ma – a detta dei suoi parenti – anche quelle della Sardegna, dove praticava un piccolo commercio di bestiame.
In breve tempo il Nostro dilapidò quasi tutti i suoi averi. Da tanta spensierata scialacquatezza si salvarono un somaro chiamato Sor Luigi, che nei suoi caldi momenti amorosi strappava a morsi le lenzuola stese ad asciugare dalle comari in Via di Porta Castello, e, per puro caso, anche gli orti di Rocca Scannacavalli, chiamata così per la loro vicinanza al mattatoio comunale sotto le mura di Corneto. E ciò accadde proprio perché lui, da convinto e sistematico scansafatiche, li aveva dati per tempo a mezzadria.
Insomma, la vera occupazione del nostro giovanotto dagli occhi celesti, semmai ce ne fu una, fu quella di studiare come stancarsi il meno possibile e, se fosse stato proprio indispensabile, di cercarsi un lavoro a nun fa’.
Dal momento che anche la vista dello sforzo altrui lo disturbava, ipotizzò un nuovo tipo di falce fienaia alla quale si dovesse aggiungere una sorta di vela per sfruttare l’energia del vento e alleggerire i movimenti dei poveri contadini la cui fatica offendeva la sua sensibilità.
Del resto Titta, che era un creativo puro, si dedicò spesso a invenzioni bizzarre. Tra queste, la Mototitta definita Straccio Volante, da lui costruita nel 1932 con un motorino da pochissimi cavalli e, come sosteneva Vincenzo Cardarelli, con vecchi barattoli di conserva.
Il giovane Titta fu misogino convinto e scapolo incallito, non si sa se – come diceva Manzoni di Perpetua – per volontà sua o perché nessuna l’avesse voluto. Certo è che per discrezione, o per spavaldo maschilismo, amava far credere che non avesse avuto mai altri amori se non quelli mercenari, a parte l’adolescenziale e platonico invaghimento per una certa Teresa Maria, maestra elementare, della quale avrebbe romanticamente ricordato, fino all’ultimo dei suoi giorni, il culo alto e poderoso.
Un parteddietro che solo a guardallo
uno ce perde de reputazzione
Per il resto, tutte le altre donne, solo in apparenza bambole de seta e de flanella, erano, secondo lui, raggruppabili nell’unica, consistente ed esosa categoria della “Monella”.
… che sta a pensione dalla zi’Fermina
e cià sempre sulla porta un’ottantina
de giovani che fanno a zepparella
Ognuno spigne e la vo’ stringe al cuore
e insacca molti spiccioli il mio amore.
Insomma, nell’acre poesia tittiana ce n’era per tutti. Per la fanciulla e il buttero
che a tarda sera
a pratino accallati,
ruspavano,
come se ruspa tra du’fidanzati
nel mentre che
tra ‘na fregnaccia e ‘na cojoneria
s’acciaffava qua e là la biancheria.
Ce n’era per la pia zitellona che al suono dell’Ave Maria pensava al batacchio e guardava la campana, ce n’era per la sublime Ava
che se vestiva quanno se spogliava,
E ce n’era perfino per Eva che costrinse Adamo a non aver riposo
perché piantava i broccoli col … coso.
Insomma il giovane Titta, in fatto di donne, non ebbe rispetto neanche per la morte. Perciò, quando una bella ma navigata signora si spense, lui mestamente si limitò a sospirare:
da viva ebbe una sola vocazione,
da morta cià la stessa posizione.
Per tigna antifemminista sparse perfino la voce che aveva pareggiato i conti con sua madre facendole pervenire due secchi di latte fresco
pe’ via che l’allevò col bimbarò
Nella realtà confermata dai familiari, l’unica vera donna che Titta amò e stimò con tutta l’anima fu, invece, proprio sua madre, che lo ricambiò con un affetto profondo e speciale e si preoccupò fino al suo ultimo istante di vita per la sorte di quel suo povero figlio così stravagante, diverso e a suo modo di vedere, fragile e disarmato come un bambino.
Eppure, piano piano, col passare del tempo, incredibile a dirsi, anche a Titta toccò trasformarsi in un uomo maturo. Diventò un personaggio bizzarro e quasi surreale nel suo improvviso materializzarsi qua e là negli angoli del paese, lasciando dietro di sé una scia di bucce di nocciole e di lupini, nel suo guardare sonnacchioso e svagato di chi non sembra attento e che invece è attentissimo, nella sua andatura lenta e felpata e nella sua sopravvenuta trasandatezza.
Una trasandatezza che, da adulto, era ormai uno sberleffo sociale, una fronda ideologica esibita come critica implacabile al perbenismo imperante di allora. Perché mai ci fu, a Tarquinia o altrove, un uomo (e un poeta) più caparbiamente anticonformista, corrosivo, mordace e provocatorio di lui.
Nel 1963 a Titta Marini venne solennemente conferito in Campidoglio il Lauro Tiberino per i suoi meriti di poeta dialettale e fu l’unico scrittore vernacolare dopo Giuseppe Gioachino Belli ad ottenere un premio così importante da un’Accademia che aveva contato, tra i suoi “laureati”, Chateaubriand, Gioberti, Rossini, Marconi, Croce e Quasimodo.