I selciati di Pienza e di Tarquinia: una riflessione di Anna Alfieri tra Pasolini e Loredana Bertè

di Anna Alfieri

In quelle lunghe notti invernali trascorse con gli occhi sbarrati nel vuoto in una clinica lontana da tutti e da tutto, i miei pensieri informi e inconsistenti fluttuavano qua e là come nuvole fatue sfilacciate dal vento. Eppure proprio in ciascuna di quelle notti, quasi a consolarmi, all’improvviso emergevano dal fondo della mia memoria alcuni versi che, isolati, ma fermi e compatti, mi piacevano tanto perché accostavano il nome del mio paese medievale e turrito a quello prestigioso di Pienza, città rinascimentale e perfetta.

Non accende la luna che grigiore
dove azzurri gli Etruschi dormono,
non pende che a udire voci di fanciulli
dai selciati di Pienza o di Tarquinia

Parole che ripetevo e ripetevo come un mantra nella speranza di addormentarmi almeno un po’, ma che, in realtà, dilatavano la mia insonnia perché non ne ricordavo l’autore. Che non era il lunare Leopardi, non era nemmeno Giovanni XXIII che in una lontana notte s’incantò a un plenilunio di Piazza San Pietro e, tantomeno, Loredana Berté, tuttora convinta che una sera la luna bussò alle porte del buio e le chiese di entrare.

Insomma, in quel mio vaneggiamento notturno, arrivavo perfino a credere che quel poeta misterioso, ma forse tarquiniese, potessi essere addirittura io stessa, io che in realtà non ho mai scritto poesie nemmeno quando ero una adolescente un po’ innamorata.

Solo dopo essere tornata a casa ho ricordato, con l’aiuto dei miei libri e di Wikipedia, che il vero autore di quei versi turchini era, invece, Pier Paolo Pasolini, uomo scabroso e maledetto, ma poeta e profeta tra i più grandi del nostro secondo Novecento. Perciò ora so con precisione che i selciati di Pienza e di Tarquinia dove gli Etruschi dormono azzurri appartengono a L’Appennino, il primo degli undici poemetti che compongono un’opera pasoliniana più importante e complessa intitolata Le ceneri di Gramsci e edita da Garzanti nel 1951. Una raccolta di poesie immaginate, sofferte ed elaborate da Pier Paolo davanti alla tomba disadorna del pensatore marxista nel cimitero acattolico di Roma. Ora, però, so anche, con altrettanta precisione, che quei suoni liquidi e consolanti nelle mie notti d’insonnia erano in realtà parole disperate e sepolcrali, antitetiche a quelle orgogliose, eroiche e ardenti di Foscolo – che di Sepolcri se ne intendeva – e che dalle tombe dei grandi italiani del passato attingeva il suo amore di Patria, la dignità dei suoi ideali, l’impulso all’azione e la speranza del nostro riscatto.

Al contrario, i versi di Pasolini ora mi suonano come rintocchi funebri e profetici, rivolti all’Italia dei suoi e dei nostri tempi che – degradata, sfaldata e corrotta, immemore della sua antica perfezione, privata della sua cultura sorgiva, plastificata in una nuova preistoria e disamorata dei suoi destini (sono parole tratte qua e là dalle opere di Pasolini) – dorme in un sonno mortale al cui spento grigiore la luna ormai non sa aggiungere che altro grigiore.

Non è di maggio
questo cielo di bava
quest’aria impura
cupa nella primavera romana
oscura e sporca
in un silenzio marcio e infecondo
Ma io
con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita
potrò mai con più pura passione
operare
se so che la nostra patria è finita?

Non a caso, proprio a pochi versi di distanza dalla descrizione dei selciati di Pienza e di Tarquinia, Pier Paolo individua, come unico e definitivo simbolo dell’Italia perduta in un sonno senza ritorno, un monumento funebre su cui è distesa, scolpita nel marmo da Jacopo della Quercia, in una chiesa di Lucca, la bella Ilaria del Carretto, una giovane donna che, adorna da ogni italica grazia, si spense nel 1405 nel dare alla luce una bimba.

e Ilaria, solo Ilaria –
dentro nel claustrale transetto
come dentro un acquario
son di marmo rassegnato
le palpebre, il petto dove giunge le mani
in una calma lontananza.
Lì c’è l’aurora e la sera italiana
la sua grama nascita, la sua morte incolore
Sonno, i secoli vuoti
Nessuno scalpello potrà scalzare
la mole tenue di queste palpebre.
Jacopo, con Ilaria, scolpì l’Italia perduta nella morte
quando la sua età fu più pura e necessaria

A questo punto mi fermo perché le palpebre d’Ilaria, tenui come un velo di sposa, ma pesanti come un sudario di morte italiana, mi ricordano Tarquinia che ha in sé le fiamme della storia, della bellezza, dell’arte e della cultura, ma che ormai, impietrita e rassegnata, rende grigia perfino la luna.

Eppure, ora che ho scritto con fatica e dolore quest’articolo così sconnesso da non sembrare nemmeno un articolo, ora che ho rievocato senza riserve e pudore le mie lunghe notti malate, ora che ho citato perfino Loredana Berté e che ho letto tutte le poesie di Pasolini, che sono difficili e a volte perfino irritanti, proprio ora vorrei che almeno qualcuno dei tanti che in questi giorni si accingono ad amministrare la nostra civile città dalla vita interrotta, leggendo tutto questo, riflettesse un pochino.