di Matteo Pierro, autore anche di “Fra Martirio e Resistenza, la persecuzione nazista e fascista dei testimoni di Geova”, Actac Edizioni, 2001
Il recente articolo dell’Ansa sulla persecuzione nazista dei testimoni di Geova ha richiamato alla mia mente la sostanziale differenza che si riscontra fra coloro che vennero perseguitati dal nazismo.
Spesso se ne parla come di “vittime” del regime hitleriano. Fra il 1933 e il 1945 milioni di persone – ebrei, slavi, zingari, omosessuali e altri — furono uccise solo a motivo di ciò che erano. Non avevano scampo, non avevano scelta. Sotto il regime della svastica, la loro morte era inevitabile. Esse furono vittime del nazismo.
Anche il termine che viene spesso usato per indicare la strage operata in Europa dai nazisti contiene l’idea di una persecuzione alla quale le persone che la subirono non potevano sottrarsi. Infatti l’Enciclopedia Treccani riporta alla voce Shoah: “Termine ebraico («tempesta devastante», dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11) col quale si suole indicare lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale; è vocabolo preferito a olocausto in quanto non richiama, come quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile”.
Altre persone che pure furono obiettivo della repressione nazista non erano semplici vittime costrette a morire. Potevano evitare lo sterminio. Avevano una via di scampo, eppure, a motivo dei loro princìpi, scelsero di non valersene. In tal modo diventarono martiri. Infatti il Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia definisce il martire “chi è ucciso perché si rifiuta di trasgredire la legge di Dio” o “chi soffre o si sacrifica per una nobile causa”.
Un esempio famoso è quello del sacerdote cattolico Massimiliano Kolbe, che aiutò i profughi ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel 1941 Kolbe fu rinchiuso nel campo di concentramento di Auschwitz, dove offrì la sua vita al posto di quella del detenuto Franciszek Gajowniczek, condannato a morte. Dopo averlo lasciato a morire di fame, alla fine gli praticarono un’iniezione di fenolo e lo cremarono. Sacrificando se stesso Kolbe divenne un martire, un’eccezione alla regola per quanto riguarda la religione cattolica e quella protestante. Infatti, la stragrande maggioranza della classe clericale di tali religioni, se non sostenne apertamente Adolf Hitler, mantenne quello che è stato definito un “colpevole silenzio”.
Nello stesso periodo, i testimoni di Geova furono duramente perseguitati perché osavano rimanere neutrali e si rifiutavano di sostenere lo sforzo bellico di Hitler. A migliaia furono mandati nei famigerati campi di concentramento, dove molti furono giustiziati e altri morirono per i maltrattamenti subiti. Nondimeno, non erano costretti a soffrire e morire. Potevano scegliere. Veniva offerta loro una via d’uscita. Bastava che firmassero un documento in cui rinnegavano la loro fede e potevano tornare in libertà. Nella stragrande maggioranza dei casi essi scelsero di non firmare, divenendo così non solo vittime del terrore nazista, ma anche martiri. Pertanto, mentre tutti i martiri sono anche vittime, solo poche vittime del nazismo potevano scegliere e in effetti scelsero di diventare martiri.
A tal proposito, un partigiano italiano deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera, scrisse dei testimoni di Geova: “Diversamente da tutti gli altri deportati potevano interrompere la loro prigionia purchè sottoscrivessero il rinnegamento della loro fede, cosa che non fecero se non in rare eccezioni. Preferirono soffrire freddo, fame ed epidemie che li portarono alla morte. Sono perciò martiri da venerare”.
Sally Grubman, un’insegnante ebrea deportata ad Auschwitz, racconta: “Ho visto gente diventare molto, molto buona e gente diventare assolutamente cattiva. Il gruppo migliore era quello dei Testimoni di Geova. Mi tolgo il cappello davanti a quella gente. Erano nati martiri. Fecero cose meravigliose per il prossimo. Aiutarono i malati, divisero il pane e diedero a tutti quelli che erano loro vicini conforto spirituale”.
La loro ineccepibile fibra morale colpì perfino il comandante di Auschwitz, Rudolf Hoss, il quale nel descrivere l’esecuzione di 2 di loro annotò: “Così immaginai dovessero essere i primi cristiani martiri, condotti nelle arene per essere dilaniati dalle belve”.
Ma non è solo nella Germania nazista che i testimoni di Geova sono rimasti integri di fronte alla persecuzione. Ancora oggi essi scelgono di rinunciare alla propria libertà pur di continuare a praticare la propria fede. Ne è un esempio ciò che sta accadendo nella Russia di Putin dove decine di Testimoni, uomini e donne, sono sistematicamente imprigionati per il semplice fatto di aderire a una religione invisa allo stato russo. Potrebbero evitare tale sorte smettendo di vivere conformemente alle proprie convinzioni. Potrebbero uniformarsi alla massa professando una religione gradita al Cremlino. Invece scelgono di soffrire pur di non mettere a tacere la voce della propria coscienza. Non sono semplici vittime della repressione. La Russia, come la Germania nazista prima e l’Unione Sovietica poi, si sta rivelando terreno fertile per il martirio.
Matteo Pierro