di Anna Alfieri
Le trifore del palazzo più bello di Tarquinia – città che una volta si chiamava Corneto – sono così eleganti e gentili da rallegrare la vista di chi si soffermi a guardarle. E il suo cortile è tanto armonioso e accogliente da mettere un po’ di pace anche ai cuori più inquieti e tempestosi. Eppure il committente di questa dimora affettuosa fu Giovanni Vitelleschi (1390-1439), un ferroso cardinale cornetano al servizio armato di Papa Eugenio IV Condulmer e della Chiesa di Roma. Un uomo animoso e astuto – parole di Niccolò Machiavelli in persona – che prese tanta autorità nelle genti e nel Papa che questo temeva perfino di comandargli.
Insomma, un condottiero tanto fosco, implacabile e spietato che Gabriele D’Annunzio, nella sua prefazione alla “Vita di Cola di Rienzo”, lo annoverò nella categoria degli uomini oscuri in contrasto a quella degli uomini illustri. E forse, proprio per questo, a suo modo guerresco, si innamorò un pochino di lui.
“In un giorno di nebbia e di uggia – scrisse infatti nel 1921 con prosa densa e torbida come un ruscello di sangue ancora caldo – in un giorno di nebbia e di uggia, dopo aver sognato di una campagna tutta incruentata da un campo di papaveri rossi come per una carneficina di baroni, e dopo aver fantasticato di un nido di poiana imbastito di crini di cavallo e putrido dei resti di una donnola e di una biscia, mi apparve nella mente all’improvviso la meravigliosa figura di Giovanni Vitelleschi, propria della terribilità di quell’Agro quanto la vertebra di un acquedotto o il rudere di un colombaio, e con un tratto acerbo e profondo essa si impresse per sempre nella materia dei miei pensieri”.
“Quel prete di Corneto che da scrivano del Tartaglia s’era fatto despota irresistibile e terzo padre di Roma, – continua il poeta – la sua impresa borgiana nelle Marche, l’eccidio di Pietro Gentile da Recanati, l’espugnazione di Vetralla e l’antica schiatta dei Vico ivi troncata di netto, l’abbattimento delle rocche in tutto il Lazio fumante, Palestrina rasa al suolo e lasciata come cenere di stoppie, Foligno occupata nell’oro e nel sangue dei Trinci: quanti profili gagliardi, quanti scorci, quanta ispirazione per la mia maniera secca e tagliente”.
“E poi – concluse lo scrittore – il crollo improvviso di tanta potenza a ponte Sant’Angelo, sopra la gialla fiumana ineluttabile come la sorte, l’ultima spronata senza galoppo, la squallida agonia, il cadavere portato di notte alla Minerva, in giupetto, scalzo e senza brache”.
Eppure, in questo vortice di parole visionarie e così concitate da togliere il respiro ai lettori, D’Annunzio dimenticò un episodio di straordinaria crudeltà vitelleschiana che io, però, conosco benissimo, perché appartiene alla storia del paese dove ho trascorso la mia infanzia nell’età miracolosa in cui i bambini imparano le cose strane che non dimenticheranno mai più.
Parlo della morte del capitano di ventura Antonio da Pisa, detto il Pontedera, conte palatino e quattrocentesco signore di Anagni, di Veroli, di Alatri e di tanti altri luoghi arroccati nel verde. Un capitano imbattibile che, forte dei suoi seicento uomini coperti di ferro, era conteso perfino dai re forestieri e arroganti che a quei tempi calpestavano il suolo italiano. Un mercenario perfetto e senza scrupoli che, come si usava, per il soldo era disposto a cambiare bandiera e padrone durante l’assedio di una città e perfino nel cuore di una battaglia di cui, però, garantiva la vittoria.
Nel 1433 il condottiero toscano abbandonò i Visconti e si mise al servizio del Papa Eugenio per il quale, fedele e potentissimo ,militava anche Vitelleschi. Il quale, quando il Pontedera tradì anche il pontefice e tentò di violare le mura di Roma per conto di alcuni baroni ribelli, scatenò contro di lui tutta la sua armata e lo sbaragliò a Porta San Giovanni. Poi, di scontro in scontro, lo inseguì fino a Priverno, che è appunto il paese di cui conosco bene la storia e le storie.
La battaglia di Priverno – che allora si chiamava Piperno – si svolse il 16 maggio 1436 e fu sanguinosa. Come racconta Niccolò della Tuscia, “Antonio con la sua scimitarra fece tante ferite e tanti ammazzamenti che sosteneva tutto l’esercito solo con la sua forza, come se Ettore di Troia fosse stato”. Ma il tarquiniese con un imprevedibile assalto di cavalleria pesante sfondò all’improvviso il lato sinistro del suo schieramento e vinse.
Antonio da Pisa detto il Pontedera venne catturato insieme ai suoi nipoti Giacomo e Giovanni, ma non fu passato a fil di lama come si conveniva a un condottiero del suo rango. Nella piana di Priverno Antonio da Pisa detto il Pontedera venne impiccato – nudo – ai rami di un giovane olivo e per ordine del cornetano vincente lì rimase appeso finché non venne divorato dai lupi. Quei lupi dagli occhi color ambra che, attratti dall’odore del sangue della battaglia, erano scesi dai monti circostanti. I monti Lepini che fanno da sfondo al panorama del mio vecchio paese, ancora oggi circondato da centinaia e centinaia di ulivi secolari, forse custodi di chissà quanti altri segreti.