Nel giorno del novantesimo compleanno del regista Giuliano Montaldo, riproponiamo un articolo di Anna Alfieri, apparso nel mensile cartaceo “L’Extra” nell’ottobre 2007, che racconta della straordinaria esperienza cinematografica della città, che fu location per il “Giordano Bruno” del maestro genovese.
di Anna Alfieri
Il 28 settembre 2007, nell’ambito della manifestazione Tarquinia a Porte aperte, al Cinema Etrusco è stato proiettato, alla presenza del suo regista, il film Giordano Bruno girato in gran parte nella nostra città nel lontano 1972.
La pellicola, che condensa gli ultimi anni di vita del cinquecentesco filosofo campano, si apre con una solenne processione veneziana commemorativa della battaglia di Lepanto. È proprio durante questa spettacolare cerimonia che il pensatore, ex frate domenicano impersonato da Gian Maria Volonté, rivendica per sé e per gli uomini che ragionano secondo il lume naturale il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero svincolato da ogni tipo di potere civile ed ecclesiastico e condanna ogni religione che faccia uso della propria potenza per fare la guerra.
Più tardi, davanti al corpo nudo e bellissimo di una sua amante, proclama la presenza di Dio in ogni particella della natura, perché una è la forma o anima; una è la materia o corpo; una è la cosa, uno lo Ente, uno il Massimo ed Ottimo. Uno solo è lo splendore della bellezza di tutte le cose, uno solo il fulgore che luccica dalla moltitudine delle specie. Frammenti della sua complessa filosofia per la quale verrà in seguito accusato di eresia, incarcerato, torturato dalla Santa Inquisizione ed infine, arso vivo a Roma. Esattamente in Campo de’ Fiori, nel preciso luogo dove ora sorge la sua statua modellata da Ettore Ferrari, autore anche del busto di Mazzini situato nell’omonima piazza tarquiniese accanto a Palazzo Vitelleschi.
Il film si avvale della fotografia di Vittorio Storaro, futuro vincitore di tre premi Oscar, e della musica di Ennio Morricone. Il regista è Giuliano Montaldo che, come sempre sorretto da un forte impegno civile, avrebbe poi raccolto le sue opere politicamente più motivate – Got mit uns, del 1970, Sacco e Vanzetti del 1971 e il nostro Giordano Bruno -in una lucida Trilogia sul Potere, espressione di quell’ansia di libertà, di giustizia e di conoscenza che allora connotava l’inquieta Italia dei primi anni ’70.
In realtà non fu questa ventata ideologica a sconvolgere, al momento dell’arrivo delle macchine da presa a Tarquinia, la nostra tranquilla e lenta vita provinciale di quei tempi. Ciò che fece fremere mura, torri, palazzi, antiche chiese, caste fanciulle e bei giovanotti, fu invece il fascino gioioso e disincantato dell’avventura cinematografica in sé che rompeva la noia quotidiana e faceva allegramente guadagnare a molti qualche soldino. Inoltre non occultando i volti, anzi esaltando alcune tipicità fisionomiche, essa rivestiva i tarquiniesi, accorsi in massa, di panni e di ruoli insoliti, in un imprevedibile e spesso sconcertante gioco delle parti, in cui poteva accadere che i rampolli di buona famiglia in un batter d’occhio venissero trasformati in popolani scalzi e cenciosi, mentre i ragazzi stradaioli e avventurieri diventavano eleganti gentiluomini pre-barocchi, severi prelati della Controriforma o chiassosi studenti parigini.
In questa logica estraniante e stralunata che confondeva la verità con la finzione e la sostanza con l’apparenza, anche gli spazi urbani tarquiniesi, rimasti immutati nei secoli, vennero reinterpretati e rigenerati dalla scenografia di Sergio Canevari e per qualche settimana persero la loro antica ragione di essere.
Il quieto interno della chiesa di San Pancrazio divenne infatti la vociante Sorbona di Parigi e quello di Santa Maria in Castello, inondato di pulviscolo dorato, fu la surreale sede del Tribunale della Santa Inquisizione Romana, mentre la piazzetta ad esso esterna, si tramutò nel luogo in cui, ferocemente strattonata da Roberto Meraviglia futuro Senatore della Repubblica e Peppe Cappellacci pittore, veniva bruciata una donna accusata di essere strega.
Infine, in Piazza Belvedere, cioè a Sant’Antonio fu riprodotto il rogo fatale di Campo de’ Fiori che, abbondantemente alimentato dalle fascine provenienti dalla Roccaccia, venne incendiato dal nostro Montello Sacripanti di professione facchino, che onorò il suo ruolo di boia con tanto zelo da bruciacchiare perfino se stesso.
Via Guglielmo Marconi divenne la strada romana dove il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno incatenato, sanguinante e di nuovo imbavagliato da una mordacchia di ferro – antico strumento di tortura destinato a sigillare la bocca degli eretici e delle streghe e per l’occasione cortesemente ricostruito nell’officina di Adriano Vallorani – venne trascinato al luogo dell’esecuzione.
La scena è forse una delle più drammatiche del cinema italiano e certamente la più realistica tra quelle interpretate da Gian Maria Volonté che mai, in nessun altro film, era apparso tanto sofferente e disperato. Così stravolto, pallido, vacillante e perfino spaventato che alcune comparse non resistettero allo strazio e, contravvenendo agli ordini del regista, interruppero le riprese e gli strapparono il bavaglio dalla bocca. Fu in quel momento che, nel costernato silenzio generale, in piazza risuonò un rantolo disumano. Poi si levò, altissima verso il cielo tarquiniese, la più raccapricciante, complicata e irripetibile bestemmia che il nostro millenario paese avesse mai udito.
Era quella di Volonté, che tornato finalmente in grado di respirare e di parlare, urlava: Per Dio (ecc. ecc.) io stavo morendo e nessuno capiva che stavo morendo davvero. Più tardi, però, siccome ormai non era morto, l’attore decise di rimettersi subito a lavoro, ma prima di farsi imbavagliare dalla stramaledetta mordacchia assassina e farsi riempire la bocca con lo stramaledetto finto sangue che lo aveva quasi strozzato, andò a farsi coraggio con un goccio di vino nella casa di Duilio Achilli, carrettiere cornetano soprannominato Chicchiricchì, che in pochi giorni era diventato un suo carissimo amico e un fraterno compagno di bevute e di cene a base di lumache locali.
Anna Alfieri