di Anna Alfieri
Il primo a parlarmi di Gem Sultan, principe-poeta ottomano del XV secolo e dei suoi strani rapporti con la nostra città, è stato il compianto Giacomo Emilio Carretto, importante studioso di storia e letteratura turca, nonché cittadino tarquiniese per sua scelta precisa. Un amico carissimo che, accompagnandomi come in pellegrinaggio tra le migliaia e migliaia di libri della sua biblioteca privata, qualche volta ha perfino tentato di introdurmi, almeno un pochino, nei misteri misteriosissimi del Medio Oriente antico e moderno.
Gem Sultan, detto anche Zizim (1459-1495) era figlio di Maometto II il Conquistatore, cioè di colui che annientò l’Impero Bizantino, strappò per sempre Costantinopoli alla cristianità, trasformò la più grande basilica romana d’Oriente nell’attuale moschea di Santa Sofia a Istanbul e costruì il Palazzo Topkapi. Un sovrano così potente e magnifico che i giannizzeri della sua guardia imperiale avevano il compito di sostenere per le braccia gli ambasciatori occidentali che perdevano i sensi al solo guardarlo.
Alla morte del padre, Gem contese il trono al fratello maggiore Bayezid, ma venne sconfitto. Perciò, portando già dentro di sé i germi di quella sua speciale e inestinguibile malinconia che avrebbe fatto di lui un poeta, si rifugiò presso i cavalieri di Rodi. Severi cavalieri cristiani che prima lo accolsero come un ospite di rango, poi lo considerarono un ostaggio e infine lo cedettero a papa Innocenzo VIII, impaziente di riceverlo a Roma per convertirlo al cristianesimo e metterlo a capo di una grande Crociata.
Fu per questo lontano motivo che l’inconsapevole Gem irruppe, con la forza devastante di un uragano inatteso, nella storia della nostra città, dove portò lo scompiglio. Tutto cominciò il 4 marzo 1489 quando – come raccontano alcuni documenti conservati nell’archivio storico comunale di Tarquinia – i cornetani, chiamati a Palazzo dal suono delle campane a martello, vennero informati che il famoso turco Gem Sultan chiamato pure Zizim, anzi Zizimo, figlio di Maometto il Conquistatore e fratello dell’infedelissimo Bayezid imperatore di Costantinopoli, stava navigando verso Roma sulla triremi del pirata Villamarina, protetta dal Santissimo Signor Papa in persona e scortata da 400 cavalieri rodensi. E che essi – gli esterrefatti cornetani – avrebbero dovuto macinare una grande quantità di frumento e predisporre, per lui e per la sua bizzarra corte ottomana, cinquanta letti provvisti di coperte e di altri ornamenti. Pena una multa di 1000 ducati da destinarsi alla costruzione della fortezza del porto di Civitavecchia dove la nave sarebbe approdata.
Fu il Magnifico Nobile Consultore (così si esprimono i nostri documenti d’archivio) Guittuccio Vitelli che, superate la rabbia e la disperazione iniziali, prese in mano la situazione e ordinò a Guidantonio Mazzatosta, Antonio Bernardi e Carlo di Campo di cavalcare per ogni dove sotto la supervisione del nobile Iacopo Malvicini e scovare – a qualunque costo e in breve tempo – i 50 letti richiesti, coperte e ornamenti compresi.
Ma, ciò nonostante, il 7 e il 10 marzo successivi le campane suonarono di nuovo a martello e comunicarono che, siccome i cornetani non erano stati abbastanza solerti nella ricerca degli oggetti richiesti, se entro l’undicesimo giorno del mese essi non avessero consegnato le suppellettili ancora mancanti, le truppe del Papa avrebbero devastato le loro campagne e razziato il loro bestiame. Quel giorno, a Corneto – dicono ancora le carte – tremarono case, chiese, torri, palazzi, orti e giardini. Tutto fu rovistato, sconvolto e messo a soqquadro: perfino i grandi conventi che, all’avvicinarsi del turco “infedele”, si erano arroccati in ostinata difesa. Anzi, solo allora, cioè solo quando le porte dei conventi più ricchi e ostili vennero sfondate con la forza, i letti destinati a Gem Sultan vennero finalmente alla luce e da quel giorno, almeno per un po’, le campane a martello a Corneto non suonarono più.
Pochi mesi dopo Innocenzo VIII morì e Gem che, ovviamente, non si era mai fatto cristiano, finì nelle mani del nuovo Pontefice, Alessandro VI Borgia. Questa volta, però, tra lui e la sanguigna famiglia del papa spagnolo si stabilì un’intesa profonda. Perciò non vi fu, a Roma, cavalcata papale o processione nel cui corteo non splendesse il principe turco che in costume ottomano distribuiva maestose elemosine, mentre don Juan, duca di Candia e figlio primogenito di papa Alessandro, entrava perfino in San Pietro indossando il vistoso turbante bianco Sarik tipico dei musulmani e Cesare Borgia affrontava i tori abbigliato in costume giannizzero. Intanto Lucrezia arrossiva nel leggere i versi che Gem componeva nella morbida quiete orientale dei suoi appartamenti sovrastanti la Cappella Sistina: “Tu nel giaciglio di rose riposi – diceva il poeta – di gioia felice. Io nella cenere della fornace mi dolgo, quale è la ragione?”.
Ma la storia è crudele e i Borgia – forse inseguendo anche loro il sogno ricorrente di una grande Crociata che restituisse Gerusalemme e Costantinopoli ai cristiani – cedettero Gem “come un azzurro oggetto senza dolore” a Carlo VIII d’Angiò, re di Napoli. E Gem, esiliato perfino dal suo esilio romano, in pochi giorni morì “al pari di un fiore reciso”. Morì a Capua “da semplice e buon musulmano recitando più volte la sua professione di fede perché nel sufismo sempre presente nella sua vita come in quella di ogni poeta ottomano, raggiungere la verità e la massima libertà interiore significava attenersi alla più attenta osservanza delle norme del proprio mondo culturale”.
Così mi raccontava Giacomo Emilio Carretto, convinto a ragione che il principe Gem, detto Zizim, mi sarebbe piaciuto un bel po’.
Fonti:
Archivio Storico Comunale Tarquinia (ASCT)
Giacomo E. Carretto Un sultano prigioniero del papa Ed. Ad Orientem, Centro Internazionale della Grafica, Venezia 1989.
Giacomo E. Carretto, Falce di Luna, Ed. Società Tarquiniense d’Arte e Storia (STAS), 2004.