di Attilio Rosati
La Riforma della giustizia pensata dal Ministro penta stellato Alfonso Bonafede è incostituzionale. Il principio cardine su cui si basa, è l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Come dire che se sei condannato in primo grado, possono passare anche venti anni prima una sentenza di appello ti assolva. In tal modo, il processo diventa esso stesso la condanna e la pena.
Vanno a farsi friggere tutti i principi di “pena educativa” e vengono calpestati tutti i principi di garanzia. Il processo diventa “ disumano”. La prescrizione, ricordo, è quel meccanismo che obbliga lo stato a processare una persona, entro limiti ragionevoli di tempo, affinché la giustizia sia rapida e certa. Se il processo supera un certo limite temporale, certo e predeterminato dalla legge, scatta una “garanzia” che, sostanzialmente, libera l’imputato da ogni addebito per far sì che chi attende giustizia non sia costretto a sopportare anni di udienze, spese, rinvii e tutto ciò che, con una condanna giusta e rieducativa, non ha nulla a che fare.
La sostanziale cancellazione di questa garanzia dopo il promo grado di giudizio serve solo a mettere il cittadino in balia di un processo macchinoso e interminabile. Bonafede crede che basti abolire la prescrizione per “salvare” la giustizia ma i veri rimedi, autenticamente garantisti ed equi, sarebbero: abolire certi reati (per esempio, mi spiegate a che serve una condanna penale a chi commette abuso edilizio quando la demolizione del manufatto illegale e una bella ammenda salata sono più che sufficienti?) e accorciare la durata dei processi fornendo ai giudici, personale, logistica e adeguata assistenza investigativa e peritale.
Torniamo ora alla prima affermazione di quest’articolo: La Riforma della giustizia pensata dal Ministro penta stellato Alfonso Bonafede è incostituzionale. Perché, si domanderà il lettore più attento, sarebbe incostituzionale? Perché è contraria all’art. 111 della Costituzione: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Il che significa che chi ha sbagliato deve pagare, ma con la pena, non con il processo.