Grande successo, diffusa delusione.
di Romina Ramaccini
È stata dichiarata mostra dell’anno; organizzatori e giornali parlano di numeri analoghi a quelli che furono propri delle Scuderie del Quirinale in occasione della spettacolare ed ottimamente riuscita retrospettiva del Caravaggio. Il primo fine settimana sono state registrate 40.000 presenze. Dopo 22 anni Vincent torna a Roma nel suo più assoluto splendore: una mostra curata dalla studiosa Cornelia Homburg che vede esposte circa 70 opere dell’artista olandese , tra oli e disegni, accompagnate da 40 pitture dei suoi contemporanei. “Non ci sarà il van Gogh dei Girasoli o delle nature morte, ma accanto a lavori usciti per la prima volta dalle collezioni private, non mancheranno le opere celeberrime ”. Le parole della Homburg, fin dall’inizio, preannunciano la presenza di dipinti sconosciuti ai molti, ma non per questo di basso valore. Bisogna anche far presente che, per l’importanza rivestita dal lavoro dell’artista olandese, i quadri divenuti icona, difficilmente vengono ceduti in prestito per mostre temporanee. Quindi, non rimaneva che sviluppare due dei temi cari all’artista per tutto l’arco della sua attività, iniziata più costantemente dall’età di 28 anni quando, cioè, dopo varie esperienze compiute nell’ambito religioso, capisce che ciò a cui è destinato è l’arte.
Inutile qui introdurre la sua personalità, divenuta tanto famosa perché considerata “malata”. Su ciò si è basata gran parte della critica che tutt’ora, nonostante le più recenti pubblicazioni, sembra voler calcare ulteriormente questo lato così morbosamente affascinante di Vincent. Non è questa la sede per aprire un dibattito a riguardo, se non fosse per il fatto che anche nei pannelli esplicativi presenti al Vittoriano, una delle prime cose che si leggono è proprio questa. Una volta entrati al Complesso, dopo una non troppo consistente attesa, si è introdotti nelle sale con una biografia dell’artista, accompagnata da alcune lettere e dal certificato di morte autentico che segnala l’ora del decesso. L’occhio più attento, non può non notare immediatamente la mancanza delle idonee segnalazioni, necessarie a captare maggiormente il periodo che viene mostrato nelle prime sale. Le lettere riportate sono prive di traduzione, le frasi trascritte, invece, completamente lasciate alla fantasia del visitatore: non c’è né data, né la fonte da cui è stata reperita la citazione. Insomma, è come scrivere un libro ed occultare i precedenti a cui si è fatto riferimento per compilarlo. Nella prima sala sono esposti, entro una vetrina, gran parte dei disegni che riproducono lavori eseguiti da artisti moderni come Millet e Daubigny e vi si possono ammirare anche soggetti che ritroveremo nei successivi dipinti : “Il Seminatore” ed il volto della donna che poi sarà riprodotto nella tela del 1885: I Mangiatori di patate. Altro bozzetto che riproduce un famoso quadro di Millet e che merita un’ elevata considerazione è “La Siesta”, eseguita poi ad olio su tela ed attualmente conservata al Musee d’ Orsay di Parigi. Per ammirare le opere pittoriche, occorre proseguire fino alla terza sala, quando, contemporaneamente a quelle di Vincent, vengono esposte a confronto quelle di altri artisti del passato e non. Il periodo messo in mostra è quello iniziale degli anni Ottanta, quando l’artista olandese si trova nel paese d’origine ed ancora sta apprendendo le basi della pittura. Il tratto è mosso, confuso. La corposità delle pennellate è quasi assente ed in alcune tele si nota l’influenza dei suoi contemporanei, come nel dipinto “ Donne che riparano reti ” dove sono palesi i tratti propri a Cezanne. Nulla da dire sui quadri presenti, ma il senso di spaesamento iniziale persiste: le opere sono messe a confronto senza alcuna spiegazione, i vetri che proteggono le pitture solo palesemente visibili a causa di una errata angolazione delle luci. È pur normale non riuscire a soddisfare la completa fruizione, ma sembra paradossale che lo stesso difetto sia presente per ogni dipinto, non solo di questa sala, bensì dell’intera mostra. La campagna è il soggetto maggiormente raffigurato, è una campagna mostrata nella sua rude realtà, concretizzata maggiormente nei volti dei contadini raffigurati sporchi e rozzi. Al tempo stesso, però, un senso di tranquillità ne viene fuori, quella serenità che Vincent prova quando, in mezzo a loro, riesce ad aiutarli nelle loro cose. È un ambiente fisso ed immutabile, quasi idealizzato e che non segue l’evoluzione che sta invece subendo la città. È un rifugio, il suo piccolo rifugio. Continuano ad esser presenti disegni accanto alle pitture, vi è uno scambio completo che mostra quanto van Gogh fosse costantemente al lavoro e cercasse di cogliere continuamente un insegnamento sia dalla vita, che dai suoi predecessori. Una volta saliti al piano superiore, si fanno da parte le raffigurazioni a matita per lasciare definitivamente il posto alle tele del periodo posteriore. Successivamente, una prima confusione data dal doppio senso della mostra senza alcuna indicazione, si procede verso il periodo divisionista di Vincent, quando, dopo aver ammirato artisti come Signac e Seurat, ne rimane in parte influenzato eseguendo lavori che richiamano le loro pennellate. Non mancano opere per fare confronti, nonostante continuino ad essere assenti adeguate spiegazioni che aiuterebbero non poco il visitatore nel percorso della mostra. Fanno seguito 4 autoritratti: dal primo eseguito nel 1886, all’ultimo dell’anno successivo. Ma il volto di Vincent non è l’unico presente. C’è il dottor Grachet, lo stesso che assistette l’artista olandese alla morte e che negli ultimi mesi gli fu costantemente vicino. La mostra sta per terminare e dall’alto possono intravedersi le altre opere del piano inferiore: sicuramente è la sala che maggiormente ha soddisfatto la curiosità dei molti che, recandosi al Vittoriano, speravano di poter vedere tutt’altre opere. Da sottolineare la presenza del “Giardiniere”, primo quadro entrato in una collezione privata italiana e conservato a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Vi sono inoltre “Paesaggio provenzale”, “Il Seminatore”, entrambi eseguiti due anni prima che Vincent morisse. Ma quello che maggiormente crea un’ elevata attrazione è “Cipressi con due figure femminili”. Qui può ammirarsi Vincent van Gogh nel pieno della sua potenza. Sembra di vedere lo stesso artista irrompere sulla tela e caricarla di colore steso direttamente dal tubetto, senza l’ausilio di pennelli che attenuerebbero la corposità che contraddistingue il paesaggio. All’orizzonte un vento che sembra addirittura di sentire, mentre, due eleganti fanciulle cercano di raggiungere la propria abitazione dopo una passeggiata all’aperto, quasi ignare della tempesta che è all’orizzonte. Il dipinto invade la terza dimensione divenendo reale: i colori si amalgamano in un duello che non sembra avere né vinti, né vincitori. Dal basso verso l’alto una forza muove l’intero dipinto e sembra di sentire gli stessi alberi agitati a causa della forte perturbazione. Un incanto, emozioni che non trovano parole. Il risveglio però, ci riporta al luogo dove eravamo e quindi, bisogna pur rendersi conto che nel complesso, la mostra, è stata ben al di sotto delle aspettative. Al termine, entro una vetrina, vi si possono ammirare ancora le lettere scritte al fratello Theo, nuovamente non tradotte, e le riviste dove comparvero articoli inerenti l’arte di van Gogh quando ancora era in vita e oltre. Una di queste è il Mercure de France dove Albert Aurier, in un articolo intitolato “Les Isoles: Vincent van Gogh” espone la propria ammirazione verso quello che lui definisce artista malinconico. Sarà proprio questa definizione che irriterà Vincent portandolo a scrivere al fratello, in una lettera successiva, di proteggerlo da tali errate dicerie ed evitare che qualcun altro scrivesse su di lui. Anche le riviste sono prive di traduzioni, quindi, gran parte del pubblico, difficilmente riesce a leggerne il contenuto. A distanza di tempo dall’inaugurazione, la maggior parte delle opinioni ascoltate, inerenti la mostra su Vincent, risultano essere similari. Il legame città-campagna non è stato espletato, secondo me, nel modo più opportuno e se mai vi fosse stato un filo conduttore nel modo di esposizione, questo non lo si vedeva. Le opere esposte, appese ad una parete e prive di qualsiasi descrizione; rimango esterrefatta nel notare con quanta superficialità si sia allestita una mostra che invece poteva rivelarsi di ben altro spessore. Nonostante tutto però, la presenza di Van Gogh, anche senza le opere più note, rimane per fortuna un pregevole vedere. Illuminazione pessima, didascalie scadenti, accostamenti che sembrano non avere un senso, percorso espositivo che può paragonarsi ad un labirinto. I numeri ci sono è vero, l’affluenza è tale che tutti gli organizzatori possono reputarsi soddisfatti, ma credo che oggi, con tutti i mezzi che abbiamo, non possiamo di certo accontentarci di aver successo solamente grazie ad un nome che viene quindi proposto esclusivamente come prodotto commerciale. Un successone come la retrospettiva di Caravaggio: e solo se, per una piccola parte, avessero preso quella mostra come esempio, l’esito finale sarebbe stato completamente diverso.