di Anna Alfieri
Per me il bello dello scrivere consiste nel raccontare ai tarquiniesi le loro storie lontane e, da qualche tempo, anche nell’ascoltare le storie che i tarquiniesi raccontano a me.
Infatti ogni tanto qualcuno, dandomi del tu o del lei secondo il reciproco stato di confidenza, mi narra di avvenimenti locali che, a suo modo di vedere, dovrebbero essere ricordati per sempre. Storie lievi o epiche, intime o pubbliche, belle o bruttissime che io assorbo con grande piacere, catalogo nel mio archivio interiore e poi un giorno – non si sa mai quale giorno – trascrivo all’improvviso sul mio giornale preferito nell’illusoria sensazione di compiere un dovere civile.
Il fatto che racconterò oggi mi è stato trasmesso da un amico medico, Paolo Fiorentini, al quale, a sua volta, in una strana staffetta, era stato narrato molti anni prima da Bruno Blasi in persona. Un fatto che Bruno non aveva mai voluto scrivere perché turbato dalla cupezza del suo contenuto. Si tratta di una storia d’amore, di morte e di straordinaria follia che, sepolcrale e notturna, sarebbe piaciuta a Edgard Allan Poe o a Mary Shelley e che, se fosse accaduta in altri luoghi e in altri tempi, avrebbe forse ispirato a Emily Brontë un romanzo ancora più patetico e straziante di “Cime tempestose”.
Invece la “cosa” avvenne a Tarquinia verso la fine del primo conflitto mondiale e perciò suscitò nei paesani solo orrore, raccapriccio e soprattutto un disperato desiderio di oblio immediato e definitivo. Forse perchè, come nel libro di Blasco Ibanez, anche qui, come in tutti i cieli del mondo, da troppo tempo galoppavano i quattro cavalieri dell’Apocalisse – la Fame, la Peste, la Morte e la Guerra – e perciò la pietà, la commozione, l’ispirazione romantica e la poesia dei sentimenti erano ormai state uccise dalle paure e dai lutti quotidiani.
Eppure quella “cosa”, maledetta e ripudiata da tutti, rimase per molto tempo nell’aria come il pulviscolo di una favola gotica che, sospesa per amore tra il cielo e la terra, voleva essere ricordata per sempre. Infatti, quasi venti anni dopo, nel 1937, a carpirne l’inquietante profumo fu uno scrittore forestiero giunto a Tarquinia per rubare agli Etruschi il segreto della loro immortalità.
Quello scrittore si chiamava Giovanni Comisso (1895-1969, Premio Strega nel 1955), in gioventù era stato soldato a Caporetto, sul Grappa, a Fiume con Gabriele D’Annunzio e sui campi di battaglia, aveva sperimentato sul proprio corpo l’angoscia della morte imminente e della ineluttabile caducità della vita.
Quel Comisso che dopo tanto vagare nel mondo era giunto a Tarquinia per immergersi nella terra “fatata” che, a suo dire, “aveva regalato agli Etruschi l’olivo, la vite, le corse dei cavalli, i banchetti, i riti e l’arte, ma soprattutto la felicità di sentirsi immortali”.
“Morendo – scrive Comisso – essi penetravano nelle loro tombe dipinte felici e profondi come in un caldo grembo femminile, sicuri che il contatto avvolgente ed evocativo con la pittura avrebbe risvegliato i loro sensi assopiti e li avrebbe ricondotti per sempre alla vita”.
“Mi raccontano – e io qui affronto finalmente l’argomento proibito che tenevo nascosto nell’angolo più impenetrabile della mia memoria – mi raccontano, continua Comisso, che nel 1918 a un giovane tarquiniese morì per Spagnola la bellissima dama e che pochi giorni più tardi, ardente di passione e convinto di poterla risvegliare con il fuoco dei suoi amplessi vitali, andò a toglierla dalla tomba e visse amorosamente con lei fuori dal cimitero, finché non fu trovato impazzito e stregato mentre errava per la campagna che nella pienezza dell’estate emanava afa e frusciava di serpi. In una terra che aveva accolto la sua follia come in una calda profondità marina ondeggiante di spighe, cupa, superba e intensa sotto nubi fumose”.
Ecco, l’ho detto, ho finito. Finalmente ho infranto il tabù che aveva impedito a Blasi di scrivere. Ma io, lo confesso, a differenza del Maestro rimasto solo davanti all’orrore e alla follia, sono arrivata fino in fondo soltanto perché ho rubato le parole di uno scrittore forestiero che, un po’ pazzo anche lui, un giorno giunse a Tarquinia nella vana speranza di sentirsi immortale.
Giovanni Comisso – “Visita agli Etruschi”, in “L’italiano errante per l’Italia”, edizioni Parenti – Firenze, 1937, pp. 45-50.