di Tiziano Torresi
Per ogni personaggio famoso giunto a un’età avanzata è pronto quello che nel gergo giornalistico si definisce “coccodrillo”, un algido riassunto biografico pronto per essere inviato alle agenzie di stampa non appena scocca l’ora fatale. Una sorte un po’ triste. Meno triste, certo, dell’esser defunti, e alleviata dal fatto che il noto scomparso non vedrà mai pubblicate quelle pietose righe, annotate con un po’ di cinica superficialità. Ma peggio, se possibile, capita poco dopo, quando qualcuno intona la litania delle memorie e delle testimonianze su di lui, vere o presunte, reali o millantate. E lo spartito del coro che segue è tutto un “mi disse”, “mi ricordo”, “mi confidò”.
Il “coccodrillo” pubblicato oggi a mezzogiorno dalle agenzie di stampa recita: “È morta a Roma Mariapia Fanfani, dal 1975 moglie di Amintore, leader della Dc. Nata a Pavia il 29 novembre del 1922, penultima di sette figli, partecipa alla Resistenza come staffetta partigiana. Dal 1983 al 1984 è presidente del Comitato nazionale femminile della Croce Rossa e l’anno seguente, sino al 1989, Vicepresidente del Comitato internazionale. Promuove numerosi interventi umanitari in Italia e all’estero. Dal 1993 Cavaliere di gran croce dell’Ordine al Merito della Repubblica”. Col che è detto tutto. E niente. Chiunque voglia approfondire troverà in rete un’ampia documentazione sulle oltre duecento missioni umanitarie che Mariapia ha organizzato in più di sessant’anni di attività, raccontate pure nei tanti suoi libri. Ma credo che solo quando le moltissime storie che hanno segnato una vita spesa con un vulcanico entusiasmo per gli altri e una energia incontenibile diventeranno Storia si potrà riconoscere che oltre il vezzo di mostrar fiera le medaglie sul petto, oltre i tanti caroselli della vita mondana, oltre le accuse di presenzialismo, ciò che conta per davvero è solo il bene che si è compiuto. Non a parole, ma con i fatti. E i fatti, alla fine, hanno sempre l’ultima parola sui giudizi e sui pregiudizi, come – a chi ha fede e a chi non ce l’ha – insegna il cap. 25 del vangelo secondo Matteo. Fatti compiuti da Mariapia non con la filantropia salottiera ma con l’impulso ad agire concretamente, che disarmava chiunque ha collaborato con lei. Io, per sette anni, sono stato tra questi. Ma non mi unirò al coro.
Vorrei solo non si dimenticasse il legame che Mariapia ha avuto con Tarquinia. Nel suo periplo, aveva scelto di trascorrere alcuni periodi dell’anno in un casolare a pochi passi dalla chiesa di Vaccareccia che il Marchese Sacchetti volle erigere per ringraziare la Madonna di aver risparmiato le campagne dai bombardamenti. Mariapia, che detestava ogni forma di ozio, lì maturava propositi di un rinnovato e sempre più ambizioso aiuto umanitario. In un silenzio (mi sia concesso solo questo ricordo personale) che non amava, che anzi odiava, che considerava “assordante”, abituata com’era alla frenesia delle attività romane, ma al quale diceva idealmente di arrendersi, riconoscendo che solo in quella solitudine e in quel silenzio riusciva a riordinare la mente e a dare un senso alle mille iniziative che seguiva o che propiziava. Quindici anni fa fu l’attuale sindaco, Alessandro Giulivi, a premiarla, in una sera d’estate, sul palco del Festival del Mediterraneo in piazza Trento e Trieste. Ed esattamente dieci anni fa, nella sala consiliare del Comune di Tarquinia gremita come mai, un parterre d’eccezione presentò il suo libro, Lady non stop. Quella sera, commentando l’impegno di Mariapia, il vescovo Carlo Chenis, in uno degli ultimi incontri pubblici prima di iniziare il rapidissimo, drammatico ma luminoso cammino di sofferenza che l’avrebbe sottratto, troppo giovane, alla vita, citò queste parole di Paolo VI, oggi santo: “Sogniamo noi forse quando parliamo di civiltà dell’amore? No, non sogniamo. Gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono doveri. Per noi cristiani, specialmente. Anzi tanto più essi si fanno urgenti e affascinanti, quanto più rumori di temporali turbano gli orizzonti della nostra storia”. Per Mariapia Fanfani gli ideali non sono mai stati dei sogni, ma un dovere. Per questo la sua è una lezione di vita e di bene. Di vita piena di senso, che vale la gioia di aver vissuto. E di bene concreto, che vale la pena aver compiuto. Una lezione, perciò, da non dimenticare.