(s.t.) Dopo Giorgia e Valentina, che nelle settimane e giorni scorsi hanno raccontato le loro sensazioni rispettivamente da Shanghai e Milano, oggi ho chiesto a Matteo Edoardo Paoloni, anche lui tarquiniese ma da anni a Madrid, di scrivere qualcosa su come sta vivendo dalla Spagna questi drammatici giorni. Lui ha risposto mettendo nero su bianco pensieri e parole che mi hanno per qualche minuto liberato l’animo, perché capaci di esprimere con una chiarezza ma anche preoccupazione assolutamente spontanee quello che da venti giorni vivo e penso e che mai sarei riuscito a esprimere con tanta efficacia. Per questo, oltre che per il contributo, lo ringrazio.
di Matteo Edoardo Paoloni
Mi chiamo Matteo Paoloni, sono un aspirante libraio, scrittore, ho quasi 34 anni e da dieci vivo in Spagna. Madrid, come dicono i giornali, di colpo è diventata la capitale con più casi confermati di Covid-19 del mondo (intorno ai 20.000 nel momento in cui scrivo); che poi è un altro modo di dire che siamo il focolaio più attivo (insieme alla sfortunata Lombardia) di tutti i continenti e, per fare un po’ di scena, di tutto l’universo conosciuto.
Dico “fare un po’ di scena” perché questa pandemia, per la prima volta nella storia dell’umanità, si è voluta trasformare in uno spettacolo mediatico. Programmi tv, telegiornali, quotidiani, blog, dirette sulle reti sociali, canali di Youtube… tutto quanto è stato riconvertito a una grande emittente monotematica che ci accompagna nell’isolamento forzato dalla mattina alla sera.
Staremo forse esagerando? Non saprei dirlo, in realtà. Anche se un’idea personale me la sono fatta.
La cosa che sorprende di più, comunque, almeno a me che sto bene e ho tutto il tempo di riflettere nel mio comodo appartamento, è la facilità con cui ci siamo fatti togliere quasi tutte le libertà (che fino a ieri consideravamo fondamentali e perciò inviolabili) senza battere ciglio.
Qui da noi le misure sono state draconiane fin dal primo giorno di confinamento. Impossibile uscire più di una persona per volta (e solo per fare la spesa), vietato fare sport, passeggiare, prendere una boccata d’aria, vedere un amico (anche solo da lontano, e c’è chi la quarantena se la sta facendo da solo) e così via… pena multe salatissime e addirittura l’arresto, nei casi più, chiamiamoli così, sfrontati.
Hanno mandato l’esercito per strada. Hanno usato droni per intimare alla popolazione di tornarsene a casa immediatamente, hanno chiuso le frontiere, fatto chiudere e, in una parte non trascurabile dei casi, fallire commerci “non necessari” (tra i quali la libreria con la quale ero in trattativa. E qui una piccola parentesi: non sono i libri, per una popolazione costretta a rimanere in casa, un bene primario?).
Solo un mese fa uno scenario del genere ci era impensabile. Nemmeno nel miglior Orwell, avremmo detto tutti quanti. E invece, neanche trenta giorni dopo, eccoci qui a supplicare nuove misure più rigide, a chiedere di inasprire le pene per chi fa il furbetto, a denunciare il vicino che va a comprare il pane una volta al giorno, a insultare chi passeggia il cane più del dovuto, pronti a rinunciare anche a quelle poche libertà (ripeto, fino a ieri inviolabili) che ci sono rimaste. Tutto ciò è, almeno dal mio punto di vista, quanto meno affascinante. E anche piuttosto inquietante.
E adesso la gran domanda: si può veramente contenere una pandemia? Ovviamente, come tutti, spero di sì. Ma la risposta forse è un’altra. E cioè che fino a che non avranno trovato un vaccino la situazione rimarrà, più o meno, un bel casino. Cosa succederà nel frattempo, quindi? Non lo so. Però di sicuro so quello di cui avremmo più bisogno adesso: e cioè un vaccino contro la paura e una buona dose di realtà in pillole.
Perché non si può (come stiamo invece facendo) lasciare indietro tutto il resto: le persone con disturbi mentali chiuse in casa e senza assistenza, le donne costrette a rimanere 24 ore al giorno con il marito maltrattatore, anziani lasciati a se stessi, malati (di altre malattie) senza accesso ai trattamenti, persone senza nessuno stipendio impossibilitate a lavorare, eccetera eccetera eccetera…
Oltre (e grazie) alla pandemia sta succedendo anche (e soprattutto) questo. Forse dovremmo, quanto meno, parlarne. No? E invece… come sempre, di questi tempi, torniamo a parlare del Coronavirus. Appunto. Gli ospedali, qui come a Bergamo e purtroppo in molte aree sparse per le due nazioni che considero casa mia, stanno ormai al collasso. È triste! E lo è ancora di più se penso che se ci troviamo in questa situazione assurda, con ospedali da campo come in guerra, terapie intensive al limite, personale medico stremato, in cerca disperata di respiratori e materiale sanitario (anche basico) per proteggere e proteggersi dal contagio, è meno colpevole il virus che le solite politiche scellerate e infami che considerano la sanità (e la ricerca) come un qualcosa di sacrificabile.
Leggevo che poco più di un decennio fa, prima della famosa crisi economica che, tra l’altro, in confronto a quella che verrà potrebbe essere ricordata come una passeggiata, in Italia i posti in terapia intensiva erano il triplo di quelli attuali. Stessa cosa vale per la Spagna. Impossibile non chiedersi come avremmo affrontato il Covid-19 con una sanità preparata al colpo. Ma forse, dati i tempi che corrono, è meglio non chiederselo troppo. Che la rabbia e la frustrazione non aiutano molto alla calma imposta della quarantena.
Speriamo almeno di imparare la lezione per il futuro. Questa, e pure tutte le altre: vedi i cieli puliti, l’aria respirabile, lo smart working, il silenzio ritrovato, gli animali a spasso per le città… “Speriamo”, ecco. Perché, come sempre, l’unica cosa che abbiamo a disposizione è la speranza.
P.s. Vorrei approfittare di questa piattaforma per mostrare tutta la mia solidarietà agli infermieri e infermiere, medici e studenti degli ultimi anni lanciati in prima linea a mettere una pezza su un panno talmente sdrucito che quasi è impossibile da ricucire. A loro va il mio grazie!
E ne approfitto anche per lanciare un messaggio a tutti quelli che mi conoscono e che magari sono preoccupati. Io sto bene, la mia compagna anche, passiamo le giornate a leggere, a scrivere, cerchiamo di tenerci lontani il più possibile dal circo mediatico che molto spesso si dedica al gioco ignobile e vergognoso della paura, e per il momento stiamo bene così.
Poi vorrei mandare un abbraccio a tutti i malati, augurando loro, con tutto il cuore, di riprendersi presto.
E per ultimo (ma non per importanza), visto che lo spazio ce l’ho, vorrei ringraziare anche tutte quelle persone che nonostante la situazione d’emergenza continuano a svolgere il proprio lavoro con diligenza e serietà, essendo rimaste loro gli ultimi barlumi di normalità che ci vengono concessi. Mi riferisco ai dipendenti dei supermercati, ai rider, ai camionisti, alle donne della pulizia (fondamentali in una crisi sanitaria, e sempre), ai farmacisti, ai fornai, ai muratori che a quanto pare continuano a lavorare, ai fruttivendoli, agli agricoltori e tutti gli altri. Grazie! Di cuore! A presto…