Coronavirus – Alice, tarquiniese a Milano: “La speranza è che da questa esperienza usciremo più forti e più saggi di prima”

(s.t.) Continuano i racconti su lextra.news da parte dei tarquiniesi che vivono da differenti realtà dell’Italia e del mondo (qui le testimonianze di Giorgia, Valentina, Matteo e Riccardo) l’emergenza coronavirus. Oggi è la volta di Alice, che vive e lavora a Milano da circa due anni.

di Alice Paone

Sono abituata a vivere da sola da quando avevo 19 anni. Mi sono trovata più volte lontana dal mio paese, in varie città d’Italia e d’Europa, sia per ragioni di studio che di lavoro. Naturalmente ho sempre sentito la mancanza di casa, della mia famiglia e dei miei amici, ma l’idea che mi ha sempre rassicurata era di poter prendere un treno o un aereo che, in poche ore, mi avrebbero portata dalle persone a me care. Per questo motivo quando, a inizio marzo, si è cominciato a parlare di impedire di entrare e di uscire non solo dalle cosiddette “zone rosse” ma da tutta la regione inclusa Milano, la città dove vivo da più di due anni, mi sono ritrovata a dover affrontare una situazione mai accaduta prima e che, sinceramente, mi terrorizzava.

Non potevo più prendere quel treno o quell’aereo che tante volte mi aveva rassicurata quando mi trovavo lontana da casa. Al divieto imposto dal governo, che nel giro di poche ore è diventato realtà e che ha portato tantissime persone a tentare di fuggire nei loro comuni di origine, sentivo addosso un divieto “morale” di allontanarmi da Milano per rientrare a casa. Con la chiusura della Lombardia infatti, la regione più aperta e ricca d’Italia, era ovvio che quella che all’inizio era definita solo un’influenza non fosse più considerata tale. Si stava delineando piuttosto l’idea di una malattia che poteva mietere vittime non solo tra gli anziani e che poteva portare al collasso il nostro sistema sanitario. La gravità della situazione necessitava quindi misure straordinarie per il suo contenimento.

Pochi giorni dopo, abbiamo capito che quello che stava accadendo in Lombardia poteva potenzialmente espandersi nel resto d’Italia, soprattutto come conseguenza delle fughe avvenute dalla regione stessa. Quando il governo ha dichiarato la quarantena in tutto il Paese, io ormai lavoravo da casa già da un paio di settimane, perché la mia azienda aveva fatto questa scelta a partire dai primissimi casi di COVID registrati a Codogno. Personalmente, le prime due settimane di quasi-isolamento (non c’erano ancora i divieti di assembramenti o le disposizioni di chiusura di bar, ristoranti e negozi) sono state particolarmente difficili, perché non volevo credere a quello che stava succedendo e alle misure estreme, mai viste prima, quasi “anti-costituzionali” che a Milano dovevamo adottare.

Ritengo tuttavia che, quando un Paese è costretto a prendere decisioni così drastiche, non si possa che dimostrare solidarietà e senso civico. Per questo dopo l’iniziale incredulità e rifiuto di credere a quello che stava succedendo, ho accettato l’idea che l’isolamento e il distanziamento sociale fossero misure necessarie ad evitare la diffusione del virus. Evitare la diffusione è importante non solo per noi stessi (credo che nessuno avrebbe piacere a passare giorni e giorni in ospedale sperando di guarire dal virus senza conseguenze gravi, e soprattutto di non dover finire in terapia intensiva) ma anche per salvaguardare i nostri nonni, i nostri amici, i nostri vicini, i nostri cari ma anche il personale sanitario, il personale delle farmacia e, in generale, di tutti coloro che continuano a esporsi per fornire servizi essenziali ai cittadini e a tutte le fasce più deboli della società.

Ovviamente non è facile per nessuno rinunciare ai contatti umani, al proprio lavoro, alle proprie abitudini, ai propri viaggi e ai propri svaghi. Io personalmente ho già alle spalle un mese di isolamento, fatto di smart working e di alcuni momenti di sconforto (che ci accomunano tutti in questo periodo), ma anche di tante chiamate e chat con amici, colleghi e parenti, che continuano, seppur in modo diverso, ad essere parte integrante della mia vita quotidiana. Aspetto il momento in cui li potrò rivedere e riabbracciare, ma per ora so che mi devo accontentare di vederli tramite uno schermo.

La speranza è che da questa esperienza ne usciremo più forti e più saggi di prima, con una nuova consapevolezza che quella che ci sembrava la normalità non può più essere data per scontata e che dovremo imparare a convivere con il nostro pianeta in maniera più responsabile.