di Anna Alfieri
All’alba del primo gennaio 1798, Corneto (questo è il vecchio nome di Tarquinia) era ancora un paesone rustico e pio, devotamente incastonato nello Stato Pontificio dove il Papa era anche Re. Un paese amministrato da soli ecclesiastici, costellato da chiese e chiesuole, monasteri e conventi, a loro volta brulicanti di monache e frati provenienti da ogni dove. E provvisto – cosa unica al mondo – di un carcere per preti un po’ turbolenti, chiamato ‘semplicemente’ Ergastolo. Insomma un luogo sonnacchioso, paziente e bigotto il cui ritmo di vita, scandito da messe cantate, rosari quotidiani e lenti lavori negli immensi campi di grano, sembrava dovesse restare per sempre così, nei secoli dei secoli, amen.
Invece il 10 febbraio le truppe francesi del Generale Berthier, considerate giacobine perché eredi dirette della dissacrante rivoluzione d’oltralpe che aveva ghigliottinato perfino la statua della venerata Madonna di Notre-Dame des Ardilles, entrarono in Roma per Porta Flaminia e in un batter d’occhio rapirono il Papa e lo privarono del suo potere temporale. Poi spedirono in Francia 50 carri colmi di opere d’arte arraffate in fretta qua e là e, infine, in un tripudio di bandiere bianche, rosse e nere e di buoni propositi, il giorno 15 proclamarono la nascita della Repubblica Romana nella quale ovviamente rimase bloccata anche la città di Corneto.
Corneto accusò il colpo, soffrì, si disperò, ma poi si rassegnò e riuscì perfino ad esultare. Infatti il 19 febbraio, Carlo Avvolta, un autorevole cornetano appassionato di antichità locali, pronunciò in municipio le seguenti, precise e sorprendenti parole: Cittadini di Corneto, alcuni giorni orsono le truppe pontificie sono state scacciate dalla nostra città e ora la Francia ci ha vestito dei gloriosi titoli di uguaglianza e libertà. Perciò è tempo che ci scotiamo dal giogo che ci ha oppresso finora, giacché la libertà del popolo sovrano ci autorizza anche a uccidere li tiranni.
Con l’avvento dei Giacobini, anche a Corneto tutto cambiò: nel nome della rivoluzionaria Égalité ogni uomo, ricco o povero, fu chiamato ‘cittadino’ e in nome della francese Fraternité ogni saluto contenne due parole rivoluzionarie: Salute e Fratellanza.
Le cerimonie religiose, perfino i matrimoni e i funerali, furono proibiti; i monasteri – ad eccezione del Ritiro dei Padri Passionisti alla Roccaccia – vennero chiusi e i loro infelici abitanti si dispersero in luoghi a noi sconosciuti. In piazza, primo in tutta la Tuscia, fu innalzato l’Albero della Libertà, cioè un pioppo, o forse un tronco di olmo, sormontato da un berretto frigio, simbolo della schiavitù liberata e ornato da bandiere, ghirlande di fiori, fasci littori e simboli massonici. Intorno ad esso nelle ricorrenze civili si inneggiava alla Dea Ragione mentre i giovani, ormai svincolati dai divieti ecclesiastici, ballavano la Carmagnola, la danza dei rivoluzionari parigini che anni prima aveva fatto divertire perfino il tetro Maximilien Robespierre.
Il Cittadino Giovanni Battista Bruschi Falgari diventò capo della guardia civile, mentre il rampante Cittadino Lucantonio, anche lui Bruschi Falgari, per soli 312 scudi aggiungeva al suo già cospicuo patrimonio terriero la tenuta della Portaccia sottratta dai francesi ad uno degli ordini religiosi disciolti e il Cittadino Bustelli, insieme ad alcuni suoi soci, per poco denaro contante acquistava l’intero Ancarano.
Gli altri cornetani, tutti quelli rimasti intimamente fedeli alla Santa Chiesa Cattolica Romana, furono costretti a sgranare il rosario nel chiuso delle loro case e pregare segretamente, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per un felice e pronto ritorno del Papa e dei suoi antichi e sani costumi morali.
Finalmente, il 27 settembre, sempre del 1798, qualcosa si mosse contro i Giacobini e quindi in difesa del Santo Pontefice. Infatti l’esercito napoletano di Ferdinando IV di Borbone e dei suoi alleati austriaci e russi – supportato da un nugolo di variopinti volontari del basso Lazio, quasi tutti briganti ciociari avvolti in tabarri ornati di medagliette e immagini sacre, e tra questi Fra Diavolo in persona – affrontò le smilze truppe francesi del generale Championnet nei pressi di Civita Castellana, ma subì una sconfitta durissima. Una rotta drammatica che costò ai difensori del Papa mille morti, novecento feriti e duemila prigionieri, trenta cannoni e tre bandiere borboniche cadute in mani giacobine. In più, centinaia e centinaia di sbandati in cerca di scampo tra monti Cimini e Maremma.
Quattro di questi, Vito Franco Cascarelli, Tommaso Di Giovampaolo, Vincenzo Vespa e Gaetano Stasi del Reggimento Mesapia, ottava compagnia, reduci dagli scontri di Fabrica e di Carbognano, trovarono rifugio in Corneto, dove deposero le armi, cioè quattro schioppi ben montati, quattro baionette e quattro cinturoni, ai piedi dell’Albero della Libertà. Poi si consegnarono a Giovan Battista Bruschi Falgari il quale, come ci ha lasciato scritto un testimone oculare, tale Giuseppe Angelotti, li accolse benevolmente, fiero di aver catturato quattro soldati borbonici senza muovere un dito.
Gli altri, i cornetani sconfortati per la sconfitta subìta dall’esercito difensore della fede cristiana, tornarono a pregare nelle loro stanze nascoste, sperando in un miracolo che forse non sarebbe mai arrivato.
Invece il miracolo, quello vero, quello grande, quello definitivo accadde realmente qualche mese più tardi, cioè tra il 26 e il 29 settembre del 1799, quando il rinnovato esercito sanfedista napoletano, risalendo dal sud, liberò trionfalmente Roma dai giacobini mentre, poco più a nord i duecento fanti di mare delle navi inglesi Culloden e Minotaur del Commodoro Sir Thomas Trowbridge bloccarono il porto di Civitavecchia e in cinque giorni convulsi liberarono anche la città di Corneto dai Giacobini locali, che scelsero l’esilio, e da quelli francesi che invece fuggirono portandosi dietro perfino le casse municipali. Alcuni di essi chiesero al buttero Lorenzo Mencarelli quale fosse la strada per raggiungere Firenze, ma il buttero Lorenzo, fingendosi istupidito dalla sua immensa solitudine maremmana, nemmeno volle rispondere.
Cadde così la Repubblica Romana del 1798/1799 che – intensa ma breve, fragile e forse precoce – scomparve per sempre dalla Storia tra il fragore dei cannoni borbonici e pontifici che sparavano a salve, i rintocchi di tutte le campane di Roma che suonavano a festa e il canto di mille Te Deum di ringraziamento al Signore che si alzavano al cielo in un’apoteosi d’incenso, di oro e di broccati cardinalizi, proprio come nel primo atto dell’opera Tosca, il cui dramma si svolge nell’esatto arco di tempo degli ultimi cinque concitatissimi giorni qui raccontati.
*Quanto scritto, compreso l’incontro del buttero Mencarelli con i Giacobini in fuga, proviene quasi interamente dall’archivio Bruschi Falgari conservato presso la Società Tarquiniense d’Arte e Storia.