Un tuffo nel piacevole passato cartaceo de L’extra: riproponiamo ai lettori un articolo di Anna Alfieri uscito sul periodico quando, ancora, era possibile trovarlo mensilmente nelle edicole.
Per mille anni Corneto, turritum et spectabile oppidum, gemino cinctum muro (Petrarca), infiammò la fantasia dei viaggiatori che attraversavano la Maremma laziale e si incise per sempre nei loro ricordi per la maestà delle sue torri e dei suoi campanili, per la grazia dorata delle sue chiese e dei suoi palazzi, per la fama dei suoi uomini d’arme e di fede, per la dottrina dei religiosi raccolti nei suoi monasteri, per l’immensità dei suoi campi coltivati a grano e per la temeraria singolarità del suo nome allusivo e selvatico.
Eppure, quando il paese venne inglobato nell’Italia sabauda, si scoprì con meraviglia che tanti e tanti altri Corneto o Cornedo punteggiavano la nostra penisola come le luci di una costellazione filiforme e perfetta o come i nodi di un lungo nastro che scendeva dalle Alpi alle coste mediterranee della Sicilia. Un nastro verde, perché idealmente composto da ispide selve di cornioli dal legno duro ed elastico come quello della foresta di Sherwood frequentata da Robin Hood, legno con il quale gli arcieri costruivano le loro armi più pregiate.
Il più settentrionale di questi paese si trovava – anzi si trova – in provincia di Bolzano, all’incrocio della Val d’Ega con quella del fiume Isarco. Si chiama infatti Cornedo all’Isarco e nella lingua madre tedesca degli Altoatesini, Karneid, che vuol dire più o meno “corniolo”.
Un po’ più a sud c’è invece Cornedo Vicentino i cui abitanti, che parlano un dialetto veneto morbido, sdrucciolevole e quasi infantile, si definiscono Cornedesi.
Nel cuore dell’Appennino Tosco Emiliano, in provincia di Reggio, si arrocca l’unico comune italiano che, come il nostro nel Medioevo, si chiami semplicemente Corneto, senza aggiunte lessicali esplicative. È un paese severo, portatore di una durissima storia montanara che, iniziata poco dopo l’Anno Mille, si è snodata nei secoli tra frane, esodi, rifondazioni, nuove frane, carestie, violenze e lotte fratricide. Un luogo impervio dove i parroci illitterati et crudi minacciavano i fedeli con l’archibugio e dove, nel ‘500, infuriò il brigante Berretti detto l’Amorotto, le cui gesta – di notte – ancora spaventano i bambini.
Eppure nulla, in fatto di brigantesca ferocia, nulla è paragonabile a quanto era accaduto nel XIII secolo a Corneto della Faggiuola vicino ad Arezzo, dove nacque il predone più sanguinario che la letteratura e la storia ricordino, quel terribileRinier da Corneto che Dante Alighieri scaraventò all’Inferno insieme a Rinier Pazzo e figurò nel primo girone del settimo cerchio, immerso in un lago di sangue bollente in compagnia dei tiranni e degli assassini più violenti, tutti eternamente trafitti dalle frecce di mille e mille centauri vendicatori.
Un altro Corneto, Corneto Monforte, si trova in provincia di Salerno ed è una bella cittadina nobilitata da resti di fortificazioni medievali e di torri feudali. Anch’essa vanta di essere stata un tempo circondata da una selva di cornioli, dai cui frutti le streghe contadine delle favole meridionali distillavano filtri d’amore. Però trae il suo nome anche dal Curniculum posto sull’elmo dei suoi guerrieri più coraggiosi e, soprattutto, dal Cor laetum et nitidum dei suoi abitanti di indole gioiosa. Nel 1862 dovette aggiungere al suo nome primitivo la parola Monforte, per distinguersi dal vicino Corneto a Fasanella, dal lucano Corneto a Perticara e da Corneto di Bari che, Commenda dei Cavalieri teutonici nella Capitanata, dette i natali ad un fraticello francescano autore di ingenuissimi miracoli per ingenuissimi contadini, ancora molto venerato in tutta la Puglia con il nome di Beato Ludovico da Corneto.
Inoltre, dalla Liguria alle Marche e dall’Abruzzo alla Calabria, tanti siti cornetani minori: piccole frazioni di paesi più grandi, minuscoli insediamenti campagnoli, rocche, castelli, ville gentilizie, pievi, conventi ed eremi, perfino ponti, torrenti, cascatelle e laghetti.
Tanti e tanti luoghi tra loro omonimi, al cui novero manca, dal 1922 e per volontà popolare, quello che era stato per secoli il più maestoso e celebrato: il nostro Corneto audace e turrito che, al pari dell’Isola che non c’è di Peter Pan e di Edoardo Bennato, non è più segnato su alcuna moderna mappa geografica. Un Non Corneto che ora si chiama Tarquinia. Ma Tarquinia, si sa, è una città bizzarra, contraddittoria e a suo modo anche incompiuta che, dopo aver ripudiato il suo vecchio nome troppo rustico per la sua etrusca nobiltà, non è riuscita poi a strapparsi, dal cuore e dalla mente, l’immagine semplice della pianta selvaggia che aveva ispirato la sua vecchia denominazione che ancora campeggia, ufficialmente consacrata dalla legge, al centro del suo stemma municipale. Civico emblema “di rosso alla croce piana d’argento caricata in palo e in fascia di un corniolo al naturale radicato, fogliato e fruttifero di rosso”, come – “udito il Commissario del Re presso la Consulta Araldica; udita la Giunta Permanente Araldica; veduti gli articoli 6 e 11 dell’Ordinamento dello stato nobiliare italiano” – venne decretato il 4 febbraio 1933, XI dell’Era Fascista, e sottoscritto con firma perentoria, virile e quasi scultorea dall’allora Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, Benito Mussolini.