di Anna Alfieri
Il 166° derby Lazio-Roma/Roma-Lazio è ormai imminente e il suo fatale risultato è ancora chiuso nella mente degli Dei capitolini. Perciò, per esorcizzare la mia tensione di radicata tifosa di una delle due squadre, voglio trascorrere un po’ di questo duro tempo di attesa raccontando una strana storia. Così – come dice Lucio Dalla – mi distraggo un po’.
La strana storia che narrerò è adatta alla circostanza, giacché collega Tarquinia all’aquila che, dal 9 gennaio 1900 – giorno di fondazione della Società Sportiva Lazio – impera, appollaiata in forma di ricamo sullo scudetto dei giocatori biancocelesti, e nel frattempo dimostra come il nobile rapace, che nella sua antica simbologia di maestà autorità sacralità e comando rappresentò l’Urbe nelle sue più remote periferie imperiali, venne introdotta a Roma da un nostro antichissimo concittadino chiamato Luchmon. Il quale, come scrive Tito Livio, un bel giorno del secondo anno dopo la 42a Olimpiade, lasciò l’etrusca Tarquinia e si trasferì sulle rive del Tevere.
Giunto sul Gianicolo – e qui viene il bello – il Nostro fu protagonista di un evento prodigioso. Infatti, proprio lì su quel colle, un’aquila piombò vorticosamente su di lui, gli ghermì il cappello e dopo aver volteggiato qua e là con alti stridi, glielo ripose regalmente sul capo come se solo per questo fosse venuta. Infine sparì nel cielo altissimo. Luchmon ritenne infausto il presagio e si sgomentò, ma sua moglie Tanaqvil, che era una tarquiniese di purissimo sangue, cadde ai suoi piedi, gli abbracciò le ginocchia e vaticinò per lui un’immensa gloria romana. Sì, perché l’aquila scesa da quelle altezze sublimi era il messaggero dei numi, venuto sulla terra per significare che con Luchmon stava entrando in Roma l’etrusco fatale che avrebbe reso immortale la città. Infatti Luchmon, che era saggio e generoso ma che sopratutto sapeva combattere a piedi e a cavallo più coraggiosamente degli altri, in poco tempo divenne Re con il nome di Lucio (Luchmon) Tarquinio (il Tarquiniese) Prisco, cioè il primo e il più grande di tutti gli Etruschi romanizzati. Con Re Tarquinio entrarono in Roma – un selvatico villaggio a quel tempo ancora semplice e dimesso – la ricchezza, il fasto e la pompa dell’Oriente antico tanto caro ai nostri antenati tusci. Entrarono le gemme, i diademi, le vesti e le sopravvesti di porpora ricamata, la musica e le danze. Entrarono i troni d’avorio, i fasci littori e, per i condottieri vittoriosi, entrò l’uso di trionfare su un carro dorato tenendo in mano il segno più alto del potere: l’Imperium, cioè lo scettro d’avorio sormontato da un’aquila d’oro, l’onnipotente simulacro del sacro volatile che Luchmon aveva incontrato sul Gianicolo venendo da Tarquinia; il simbolo stesso dell’Urbe nel mondo, la sua unica e vera bandiera di guerra, l’imbattibile vexillum di tutte le sue legioni. Perché ovunque c’era l’aquila di Tarquinio, lì c’era Roma.
Poi anche Roma cadde, ma l’aquila continuò a vivere nel Sacro Impero che Carlo Magno chiamava “Romano” e, di dinastia in dinastia, fu presente ovunque in Europa e nel mondo aleggiasse un respiro imperiale. Non a caso, nel ventesimo secolo da poco trascorso, un marmoreo Dux italico fece del rapace che poteva fissare anche il sole, un uso – a suo modo di vedere – trionfale. Ahimé!
Attualmente a Tarquinia si possono ammirare ben sette aquile monumentali: sei di esse adornano la Fontana di Piazza, voluta e inaugurata nel 1724 da un cardinale che, guarda caso, si chiamava “Imperiali” ed un’altra svolazza, con qualche misterioso riferimento massonico, in cima al monumento di Mazzini.
Basta così, perché mi sto accorgendo che, scrivendo scrivendo e raccontando raccontando, il tempo destinato ad esorcizzare la troppo ansiosa attesa del derby è ormai quasi del tutto trascorso. Resta ancora a mia disposizione qualche minuto di recupero che saggiamente userò per precisare come, essendo stata fondata la Società Sportiva della Lazio ben ventisette anni prima di quella della Roma, furono proprio i Laziali ad avere l’opportunità di scegliere, per primi, tra i due grandi simboli della romanità – l’Aquila e la Lupa – quello che li rappresentasse meglio. Scelsero l’Aquila, lasciando la Lupa ai Romanisti.
Detto questo, l’ora fatale si avvicina. “Vinca la squadra migliore”, cioè quella per la quale io tifo da sempre. Però, comunque andranno le cose, alla vigilia del futuro 167° derby, per par condicio parlerò a lungo e molto volentieri anche della Lupa tottiana e capitolina. Così, per distrarmi un po’, come dice Lucio Dalla.