di Anna Alfieri
C’era una volta a Corneto – e a Tarquinia c’è ancora, ma in forma di un triste groviglio di rami e di erbacce – il giardino di Villa Falgari, cioè il bel parco dell’antico casino delle delizie e della caccia che, nel 1864, la contessa Giustina Bruschi Falgari fece ampiamente ristrutturare nelle forme eclettiche del secondo Ottocento, su progetto dell’architetto romano Virginio Vespignani, al quale si debbono alcuni dei più vistosi edifici capitolini del XIX secolo.
Un giardino all’inglese, connotato da anfratti verdi e misteriosi, fontanelle zampillanti, ruscelletti gentili, vialetti ombrosi e nascosti, per molti anni rifugio segreto degli innamorati tarquiniesi che incidevano i loro nomi e i loro cuori sulle foglie delle agavi. Un luogo profumato di piante rarissime e di magnifici agrumi che, ai tempi del Papa Re, rifornivano la flotta pontificia di stanza nel porto di Civitavecchia. Un piccolo paradiso terrestre in cui i conti Bruschi Falgari nel 1875 ristorarono con una bibita al latte di mandorle un accaldato Giuseppe Garibaldi disteso sotto un albero di magnolia e dove, nel 1905, accolsero perfino Vittorio Emanuele ed Elena di Savoia. Insomma, un incanto di giardino che nulla al mondo sembrava potesse adombrare: non la morte di una giovinetta uccisa il 1 maggio del 1918 con un colpo di arma da fuoco esploso da un innamorato respinto e nascosto tra gli alberi, né tantomeno la strana vicenda di una soprano emozionata che perse i sensi durante una esecuzione all’aperto del Don Giovanni di Mozart.
Invece, qualcosa incominciò a scricchiolare – ma lì per lì nessuno se ne accorse – ai tempi del boom economico della metà del secolo scorso, quando una bella signora tarquiniese, di cui mai dirò il nome, decise di farsi un amante romano, amico e socio in affari dell’architetto francese Antoine Cournudet, noto costruttore, in Costa Azzurra, di dimore assai prestigiose per ricchi vacanzieri europei, principi arabi, armatori levantini, dive del cinema e latin lover di avventuroso passaggio.
A Tarquinia, Cournudet acquistò dai signori Luzi dieci ettari di terreno fabbricabile a Colle Marina, una piccola altura confinante proprio con Villa Falgari, situata un po’ fuori le mura cittadine, inondata di fascino etrusco, odorosa di Maremma e spalancata sul mare. Una collinetta verde e azzurra che, non troppo lontana da Roma, allora fervente di dolcissima vita, sembrò all’architetto d’oltralpe il luogo perfetto per la costruzione di un lussuoso complesso edilizio destinato ad acquirenti sensibili e mondani, provenienti da ogni parte d’Europa.
Ad assumere l’appalto, cioè l’onere materiale e finanziario dell’opera, fu la solida ditta di due fratelli imprenditori locali. Ma, nonostante una costosa campagna pubblicitaria, il progetto di Cournudet non decollò, i compratori sensibili e mondani non affluirono e i due facoltosi costruttori si trovarono sull’orlo del fallimento. A questo punto scese in campo la contessa Matilde Bruschi Falgari della Rocca di Candal che, proprietaria della villa adiacente a Colle Marina, amica personale dei due distintissimi appaltatori tarquiniesi e di qualche alto prelato molto potente in Vaticano, trovò un acquirente speciale: la Congregazione del Santissimo Sacramento, i cui componenti – i Sacramentini Adoratori dell’Eucaristia – si dichiararono disposti a completare a loro spese l’edificio per trasformarlo in una grande casa di meditazione per i confratelli in crisi spirituale. Ad una condizione, però: che la contessa Matilde, alla quale il cielo non aveva concesso il dono della maternità, li facesse eredi della sua villa compreso il giardino con la relativa cappella gentilizia dove essi, i Sacramentini eucaristici, avrebbero, ovviamente, pregato molto per lei.
L’affare si concluse, ma, qualche anno più tardi, gli adoratori dell’Eucaristia migrarono altrove e, con la disinvolta leggerezza di uno stormo di rondinelle nere, affidarono Villa Falgari alla Curia Vescovile di Civitavecchia e Tarquinia. E la Villa, che evidentemente era cosa viva, vibrante e sensitiva, se ne ebbe a male e incominciò a intristire.
Negli anni ’80 del secolo scorso, però, la sensibile dimora ebbe ancora un sussulto di vita e ciò accadde quando alcune cooperative addette all’inserimento sociale dei bambini in difficoltà ne fecero, in comodato con la Curia, un buonissimo uso. Anzi, essendo essa una Villa ambiziosa, visse allegramente alcuni momenti di strano splendore quando, ad animare i suoi laboratori di ceramica artistica diretti da Bruno Elisei, accorse perfino il pittore surrealista – e molto surreale lui stesso – Sebastian Matta. Il quale, esaltato dalla creatività infantile, per un attimo vagheggiò – e io ne sono una testimone diretta – di fondare un movimento artistico e ideologico che, alimentato dal suo genio e dal potere ludico e pacificatore della mente infantile, avrebbe salvato il mondo con l’ironia di un sorriso innocente. Ma anche quello fu un fuoco di paglia e il giardino Falgari, dove in tempi felici avevano giocato perfino i figli del re, dove Garibaldi aveva assaggiato il latte di mandorla all’ombra di una magnolia, e dove qualcuno era morto per un amore malato, si chiuse di nuovo in se stesso. Abbandonato dagli uomini, da Dio, dai nobili Falgari, dagli svolazzanti Adoratori dell’Eucaristia e perfino dal pittore più immaginifico del mondo, divenne sempre più cupo e ostile.
Ora, riscaldato soltanto dalla nostalgia impotente di molti tarquiniesi, ma stregato dal sortilegio di una ignota fata malvagia, è un grumo selvatico e impenetrabile di rami scheletriti e contorti. Abitato, ma solo in una minima zona sperduta, dalla piccola comunità religiosa delle Sorelle degli Apostoli che si occupano dei sacerdoti divenuti ormai troppo anziani, per i quali coltivano, in un angolo, un banale orticello di sussistenza.
Un ringraziamento particolare ad Edmondo Barcaroli che ha gentilmente fornito le belle foto di una Villa Falgari, ancora felice.