di Anna Alfieri
Per strane circostanze che non sto a raccontare, possiedo una cassettina di legno sulla quale è impressa una data: 1840. Dentro questa cassettina c’è un mazzetto di lettere ingiallite dal tempo, provenienti da Cellere, scritte dalla nostra compaesana Camilla Mariani e da lei inviate a suo fratello Benedetto, residente a Corneto. Sì, al Nobiluomo Benedetto Mariani, proprietario del palazzo che, contiguo a quello comunale, ancora oggi si affaccia con ventotto finestre su Piazza Matteotti a Tarquinia e di una bella casa nei pressi di Santa Maria Maggiore a Roma, dove trascorreva alcuni mesi dell’anno. Proprietario anche di centinaia di rubbia di terra coltivata a grano vigneti e olivi a Vallelarda, Taccone, Taccone Cerrino, Pidocchio, Olivastro, San Matteo e Fontanamatta; di una lestra alla Roccaccia; di una masseria al Mignone con tremila pecore, centonovanta vacche, cinquanta cavalli e di un numero imprecisato di case, casupole, magazzini, orti, orticelli, giardini e giardinetti all’interno del nostro paese.
Camilla, sua sorella e redattrice delle lettere in mio possesso, fu, forse, bella come tutti i Mariani ottocenteschi di cui posseggo le foto. Fu però – e questo lo so con la certezza che mi viene dall’aver letto ogni sua scritta parola – anche una donna ruvida, scontrosa, chiusa in se stessa, parsimoniosa fino all’avarizia e ossessionata dall’ansia di accumulare ogni ricchezza concreta, che lei chiamava “La Roba”. Insomma, Camilla fu un personaggio complesso e robusto che avrebbe fatto la gioia di ogni scrittore verista, compreso (ma qui azzardo un’ipotesi letteraria spericolata) Giovanni Verga in persona.
Ma non è a causa di questa sua specificità caratteriale che io sto qui a parlare di lei. Io sto qui a parlare di lei perché Camilla Mariani cornetana fu madre, e madre dolorosa, di due patrioti risorgimentali che pagarono a carissimo prezzo la loro fede mazziniana, la loro devozione a Garibaldi, il loro amore per la libertà e per l’Italia.
Tutto iniziò quando nell’anno 1813, nel giorno di domenica 16 maggio, alle 9 di sera, in nome di Napoleone Imperatore dei Francesi, Re d’Italia, Protettore della Confederazione del Reno eccetera eccetera, Camilla sposò un giovane “di stirpe illustre”, cioè il ricco proprietario terriero Nicola Mazzariggi di Cellere, che la fece arrabbiare per tutta la vita. “Quel poltrone di Nicolino – confessava infatti Camilla al fratello, strapazzando e macchiando con schizzi d’inchiostro la sua carta da lettere – quel poltrone di Nicolino che è un possidente e facoltoso ma inetto (sic), un commerciante di granaglie freddo”. Anzi, “fredo” con una sola d perché la nostra compaesana non andava d’accordo nemmeno con l’ortografia e giurava che avrebbe voluto essere lei l’Uomo di casa al posto di nicolino, scrivendo Uomo con la lettera maiuscola e nicolino con quella minuscola.
Ciò nonostante il mite Nicola, che forse l’amò, le regalò due bei figli maschi: Francesco e Tommaso, i futuri garibaldini avventurosi e caparbi che già conosciamo. A quei tempi la vita dei patrioti dell’Alto Lazio era tutta un tumultuoso susseguirsi di cospirazioni, di fughe, di latitanze e di esìli dolorosi. Di scontri a fuoco improvvisi, di agguati inattesi e, qualche volta, di vere e proprie battaglie delle quali nessuno ancora è riuscito a contare il vero numero delle vittime. Anni confusi e ormai leggendari in cui i Bonaparte di Canino facevano i cospiratori, il buon chirurgo Cozzolini di Bolsena era in realtà un pericoloso sovversivo, i famigerati fratelli Bocci di Ischia di Castro sostenevano segretamente i Garibaldini e il futuro brigante Tiburzi si faceva, a suo modo, portatore di idee patriottiche. “Tutta gente perniciosissima e delittuosa che – secondo la Gendarmeria Pontificia di Viterbo – si prestava a ogni opera nefasta e a maneggi di sollevazione”. “Tanto più – ribadiva la Gendarmeria – che nella Tuscia perfino le prostitute nascondevano in casa oggetti rivoluzionari e qualcosa di criminoso”.
Tempi romantici, durante i quali Francesco e Tommaso Mazzariggi aderirono all’Associazione Castrense, composta dal fior fiore degli abitanti dei quattordici paesi che avevano formato l’antico Ducato di Castro, cioè da gentiluomini di provincia giovani e sognatori che “si distinguevano per virtù, educazione, dottrina e ricchezza, tesi a promuovere l’istruzione, la moralità e l’incivilimento del popolo della Tuscia profonda”. Dopo la fine della Prima Guerra d’Indipendenza, però, il sodalizio si trasformò in un’accesa società segreta che vantava, come soci onorari, Giuseppe Mazzini e il repubblicano francese Ledun Rollin. Un’organizzazione composta da veri cospiratori agguerriti, consapevoli e pronti a tutto, che si riunivano tra le emblematiche ruine della città di Castro, distrutta nel ‘600 da Innocenzo X, e che lì giuravano di liberare le loro terre dalla tirannide pontificia o di morire.
Fu così che nel ’49 Francesco e Tommaso ebbero il loro doloroso battesimo del fuoco combattendo agli ordini di Giuseppe Garibaldi, accanto a Goffredo Mameli e a Luciano Manara durante la disperata difesa della Repubblica Romana. Successivamente, nel 1857, dopo anni di dura latitanza, tentarono, fallendola, un’invasione dello Stato della Chiesa e nel 1860 aiutarono i volontari che volevano attraversare i boschi del viterbese per raggiungere i Mille in sosta a Talamone. Nel crudo 1866, però, i due Mazzariggi, ormai conosciuti e ovunque perseguitati dalla Polizia Pontificia come “temibili demagoghi responsabili della guida di almeno 200 rivoltosi”, si avviarono a consumare i momenti più drammatici della loro avventura risorgimentale. Trovati, infatti, in possesso di “materiale propagandistico a carattere liberale e di una notevole corrispondenza volta all’organizzazione di una nuova insurrezione”, vennero rinchiusi nel carcere di San Michele in Roma. Due anni più tardi, precisamente il 13 aprile 1868, Tommaso fu ucciso dalla fucilata di una guardia papalina che lo colpì alla testa, e il suo corpo non venne mai restituito alla famiglia. Francesco “anch’egli martire delle prigioni edificate dalla chiesa cristiana – così recita una lapide ora posta sulla facciata del palazzo comunale di Cellere – sulle tremule braccia resse il capo del fratello morente crivellato dal piombo pontificio”. Poi affrontò l’esilio in Toscana, da dove cercò più e più volte, ma invano, di mettersi a contatto con il suo “Biondo Duce di Caprera”.
Infine, solo nel 1871, dopo la caduta del potere temporale del Papa, divenne sindaco di Cellere dove, più tardi, morì circondato dall’affetto dei suoi concittadini, specialmente i più poveri, ai quali, in perfetta coerenza con le sue giovanili idee umanitarie, aveva donato TUTTI i suoi beni, “quei vistosi beni aviti” che avevano tormentato la vita ossessiva e sparagnina di sua madre Camilla.
P.S. Tra le lettere della mia cassettina ce n’è una speciale e preziosa. È la lettera di auguri natalizi scritta il 23 dicembre 1841 da Francesco Mazzariggi in persona a suo zio Benedetto Mariani di Corneto. Una letterina rispettosa e adolescenziale che, però, nella sua conclusione, rivela un dettaglio curioso: “Faccia grazia, carissimo zio – scriveva Francesco – di partecipare i miei auguri e i miei sentimenti d’affetto anche al mio caro cugino Grespino”.
Ebbene, il caro cugino Grespino, in realtà non si chiamava Grespino ma Crispino, il Conte Crispino Mariani, futuro gonfaloniere della nostra città. Questo a dimostrazione che, senza ombra di dubbio, come sua madre Camilla, anche l’eroico patriota Francesco non andava d’accordo con l’ortografia italiana.
Tutte le notizie riguardanti i possedimenti della famiglia Mariani sono state tratte dalla relazione sulla Visita Apostolica nell’agro Cornetano di Monsignor N. Milella, 1848, conservata presso l’Archivio della S.T.A.S. e i dettagli sulle nozze napoleoniche di Camilla Mariani, dal Registro delle pubblicazioni di matrimonio, 1813, conservate presso l’Archivio Storico Comunale di Tarquinia. Le notizie su Francesco e Tommaso Mazzariggi, provengono in gran parte da: Autori Vari, Un aspetto del Risorgimento viterbese. L’associazione castrense del 1848-49, Consorzio Castrense, 2000.