Già nel IV secolo dopo Cristo Rufio Festo Avieno, nel tradurre la “Descriptio Orbis Terrae” di Dionigi il Periegeta, definiva la Britannia “terra degli Albioni”, dall’antico nome gaelico della Scozia che era Alba; e già allora la fiera inimicizia fra popoli Italici e Britanni, si era manifestata e concretizzata in una lunga sequela di guerre e “campagne di conquista” che partirono dal 43 d.C. quando ancora l’esercito romano era composto da contadini soldati, e durarono fino a tutto l’84 d.C. quando le falangi romane erano oramai legioni di professionisti che combattevano sotto le insegne di un grande impero.
L’odio bretone nei confronti dei romani si manifestava come decisa avversione per gente tiranna, rapinatrice del mondo, spietata al punto da distruggere le culture dei popoli conquistati per affermare e diffondere la propria.
Con il trascorrere dei secoli l’antagonismo non accennava a mutare, fino alla concezione fascista della Britannia come “Perfida Albione”, rea di volee mortificare le legittime aspirazioni italiane ad avere “un posto al sole” nella geografia mondiale.
Nel calcio, per fortuna, questi ricorsi storici si sono stemperati in una fiera inimicizia, intrisa di rispetto fra chi il calcio moderno ha inventato e chi ha saputo migliorarlo raggiungendo le più elevate mete di profondità di pensiero e tecnica.
Questo e molto altro è Italia-Inghilterra. Non vi lasciate ingannare dalle ipocrisie tipiche della moderna civilizzazione. Quando ci guardano, vedono un elmo romano; e noi un’ascia bipenne. Sentono il fragore della battaglia e noi pure; ci rispettano, ma solo perché ci temono e noi li rispettiamo, solo perché oramai non possiamo (né vogliamo) sottometterli. Mai più.
È solo una partita di calcio, ma pesano i secoli di storia; conta il ricordo di Gaio Giulio Cesare che per bagnare gli zoccoli del suo cavallo nell’oceano Atlantico dovette sottomettere tutta la Gallia e tutta la Britannia.
Figuriamoci se ci preoccupa Rooney.