Riceviamo da un lettore questa lettera, da lui firmata, che pubblichiamo
Buongiorno a tutti i lettori de L’extra.
Ho pregato un amico di trascrivere per me quanto vorrei farvi sapere.
Sono un albero nonostante il mio attuale aspetto. Mi chiamo Ulivo. Non ricordo esattamente dove sono nato, ero troppo piccolo per ricordare e il tempo ha cancellato anche le ultime tracce di ricordi dalla mia memoria. In realtà, non sono neanche troppo interessato a rievocare i passaggi della mia vita che mi hanno condotto, poi, ad essere trapiantato qui nell’aiuola dove, probabilmente, finirò anzitempo i miei giorni.
Il luogo è bellissimo e venni scelto tra i miei fratelli per il vigore del mio fusto e delle mie fronde a rappresentare l’albero, simbolo di pace, tanto caro al santo Francesco a cui la chiesa che avrei dovuto adornare è dedicata. Mi è toccata, però, una strana sorte e per nulla pacifica.
Pochi anni fa, qualcuno che doveva, e forse intendeva, prendersi cura della mia esistenza e del mio decoro, forse con troppa enfasi o con eccessiva solerzia o per semplice incompetenza, ha pensato di potare i miei rami radendo quasi “a zero” la fronda che sostenevano. Nonostante io sia un vegetale, non sono un esperto di botanica e non saprei dirvi se quelle dolorose amputazioni, più che potature, siano state effettuate nel momento sbagliato o se mi siano state prodotte ferite che poi si sono infettate. Quello che so con certezza è che quei miei pochi nudi rami, lasciati dopo l’intervento come orrendi moncherini, in breve si sono irrimediabilmente seccati.
Immagino che a quel punto qualcuno, forse lo stesso amputatore di cui sopra, datomi per morto, deve aver pensato che era meglio togliersi dall’imbarazzo tagliandomi via tutto il tronco, fin quasi alla radice.
L’aiuola restò cosi spoglia della mia ombra.
Tuttavia, la chiesa non poteva restare in questa maniera, priva di quel simbolo tanto sacro e caro a Francesco. Allora i premurosi e solerti giardinieri mi collocarono a fianco, poco distante, un giovane fratello credendo, evidentemente, che, grazie alle maldestre cure ricevute la mia ora fosse giunta da un pezzo e che sarei stato dimenticato in fretta. Come si può dedurre, non è proprio così.
Io invece sono ancora qui, vivo seppure non troppo vegeto, poiché quei piccoli germogli che tento di far spuntare stagionalmente dal profondo delle mie radici, ancora ben salde e nutrite nel terreno, vengono rimossi con una pervicacia che rasenta la tortura e nulla di verde che provenga da quel che resta della mia parte emersa è tollerato da chi, sadicamente, mi gira ancora intorno. Ora la mia vitalità, sin qui già triste e tormentata, mi prospetta ulteriori sofferenze oltre quelle derivanti dalle incessanti opere di repressione.
Se fossi un umano potrei parlare di stato di ansia e inquietudine causato da interrogativi che si adunano proprio sopra quel piano di legno secco che è la parte del mio essere visibile: perché non lasciar crescere almeno uno dei piccoli rami che faccio spuntare per segnalare la mia presenza vitale e permettermi, nel tempo, di ritornare ad essere un albero con tanto di rami, foglie, chioma e frutti? Perché il fratellino ulivo, tanto vicino alle mie radici, non viene trapiantato in un posto più adeguato fintanto che sia ancora possibile e agevole data la ancora piccola taglia? Per quanto tempo dovrò ancora essere torturato con un’eutanasia tanto prolungata, malvagia quanto coatta? La vita, anche nella sua forma vegetale, può essere trattata in questo modo? Il mio Santo preferito, Francesco, che prego per intercessione, cosa penserebbe di tutto questo?
L’Ulivo anziano