Vi è mai capitato di leggere un libro, lasciarvi trasportare dalla storia, assaporare le sue parole ma allo stesso tempo sentire come una sorta di mancanza? Siete lì, vi state godendo il momento ma c’è qualcosa che non va, vorreste un elemento che completasse il senso di quello che state leggendo: la musica.
Chi l’ha detto che solo i film possono avere una colonna sonora? Perché non aggiungere l’ascolto di un brano che si adatti a pennello alle vicende dei protagonisti dei vostri libri preferiti? Noi ci abbiamo provato ed è così che, da due grandi passioni fino ad ora rimaste isolate, è nata la rubrica Book Notes.
Ora non vi resta altro che munirvi di un qualsiasi dispositivo che vi permetta di sentire le canzoni proposte mentre leggete le recensioni e il gioco è fatto.
di Stefano Tienforti
Ok, non cadiamo nella tentazione delle conclusioni affrettate. Punto uno: non farò sempre recensioni a sfondo musicale, per quello c’è Francesca che ha continuità e idee chiare in quantità ben maggiori di me (e qui potete leggere il suo pezzo di debutto). Punto due: no, non ho scelto come abbinamento Bohemian Rapsody perché Kundera è ceco. Anche perché è moravo e non boemo, seppur lui stesso in un passaggio de La lentezza si mostri consapevole di come tanti, di simili puntualizzazioni geografiche, se ne freghino.
Certo il fatto che lo scrittore naturalizzato francese sia cresciuto in una famiglia di musicisti rende più facile il compito – e c’è chi ha fatto interi studi sul parallelismo tra le sue strutture narrative e quelle dei generi musicali classici – ma a me l’idea è venuta leggendo la scena (non vi dico quale, così niente spoiler) in cui anche “visivamente” si incontrano i due piani di narrazione, quello settecentesco che sgorga dalla trama di un racconto di Vivant Denon e quello contemporaneo in cui si aggirano l’autore stesso, sua moglie e una serie di altri personaggi a essi in qualche modo, più o meno legati.
Scena che mi ha ricordato il mix che caratterizza il capolavoro dei Queen, che passano dal corale alla ballata, dalla lirica al rock nel brano chiave di un album che si ispira (e si dedica già dal titolo, A night at the opera) alla musica classica e all’operistica. E la forza di entrambi – canzone e romanzo – sta nell’abilità dei rispettivi creatori di mantenere coerenza nei singoli passaggi.
Quella de La lentezza è stata la mia prima, recente esperienza con Milan Kundera, e la prima sensazione avuta mentre ancora lo leggevo è stata che quello del romanzo/racconto sia un alibi per nasconderci un saggio. Ed è una sensazione positiva: quello che mi resta si trova molto più, infatti, tra gli spunti di riflessione – tanti, tantissimi e variegati – che l’autore semina per le pagine piuttosto che nelle storie che incrocia e sovrappone, a volte in modo quasi onirico.
Tra tutte, quella che più mi ha acceso scintille in testa è l’introduzione da parte di Kundera di quelle che definisce equazioni elementari, da cui in fondo il romanzo trae il suo titolo.
Il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.
Una base di partenza che vale per un’analisi propria, intima, del modo in cui il singolo animo possa e voglia percepire il suo vissuto, goderlo, bruciarlo, preservarlo, percorrerlo a passo di corsa o di lieve camminata. Ma anche di una riflessione quasi sociologica sul vivere attuale, su un mondo frenetico perché vuole dimenticare o che dimentica subito, con superficialità, proprio perché troppo intento a correre. Da qui si ramificano quasi spontaneamente tanti altri spunti, dall’estasi della velocità che affranca dal futuro, e quindi anche dalle paure, all’idea – forse più un timore, o una premonizione – che in questo frenetico caos smettano di esistere e resistere riferimenti e certezze: “Quando gli eventi accadono troppo rapidamente nessuno può essere sicuro di niente, assolutamente di niente, neppure di se stesso”.