di Romina Ramaccini
Percorso viale Washington ed arrivati a viale Fiorello La Guardia, si scorge, attorniata da un paesaggio fiabesco una volta di proprietà della famiglia Borghese, quello che nel Settecento era noto come Casino dei Giuochi d’ Acqua, per la vasta presenza di fontane e ninfei.
È l’Aranciera di Villa Borghese a Roma, oggi sede del Museo Carlo Bilotti e luogo interessato alla promozione dell’Arte Contemporanea nella Capitale. Sconosciuta a molti, forse per le sue scarse dimensioni, conserva una collezione permanente di opere donate dall’imprenditore e collezionista di fama internazionale italo-americano Carlo Bilotti, di notevole interesse culturale. Tra le opere presenti, basta citare il ritratto eseguito alla figlia ed alla moglie del collezionista da Andy Warhol e la cospicua presenza di lavori di Giorgio de Chirico.
Oltre a questa meravigliosa collezione, dall’ 11 ottobre fino al 6 gennaio 2013, nella stessa sede, si possono ammirare 37 capolavori del pittore Afro Basaldella. Nato nel 1912 a Udine, è uno dei pochi artisti che ha conosciuto il successo già quando era in vita. Le esperienze avute durante la sua attività artistica gli hanno permesso di entrare in contatto con l’animato ambiente del dopoguerra italiano e di allargare le proprie vedute anche fuori dalla Penisola, attraverso un viaggio negli Stati Uniti, dove ha potuto ammirare e conoscere l’avanguardia che in quegli anni stava nascendo. Durante il suo lavoro, ha in gran parte conservato gelosamente la tradizione pittorica italiana, adeguandola al suo tempo e rendendola parte integrante di qualsiasi sua espressione pittorica.
La mostra “Afro:dal progetto all’opera”, oltre a festeggiare il centenario della nascita del pittore, vuole mostrare come ogni suo dipinto diviene tale attraverso l’elaborazione di studi preparatori costantemente affiancati all’opera definitiva. È in quest’ottica che viene impostato l’intero percorso. Nella prima sala si staglia lungo la parete “La caccia subacquea”. Due grandi lavori, uno eseguito su cartoncino telato, l’altro, quello definitivo, su tela. Le dimensioni sono le stesse, come non cambia il soggetto che compone entrambe le superfici. Quello che subito risalta all’occhio è la quasi identicità dei lavori, nonostante il primo possa ritenersi solamente una bozza a cui far riferimento: tra il momento preparatorio e quello definitivo, cambia solamente il supporto e la tecnica, ciò fa si che anche lo studio diventi un’opera d’arte compiuta. Nella prima è utilizzato come mezzo d’espressione il carboncino, nella seconda una tecnica mista. Qui di nuovo un ricorso alla tradizione: non è usato infatti esclusivamente il colore ad olio. Afro ricorre alla tempera all’uovo, tecnica artistica di utilizzo secolare, e solo alla fine stende una velatura di colore ad olio per rendere il tutto più luminoso.
In sostanza, vi è una continua trasposizione di tecniche artistiche antiche nel linguaggio contemporaneo. Anche i soggetti rappresentati fanno ricorso ad oggetti della realtà, dando vita ad un’astrazione del reale. Basta soffermarsi per un attimo di fronte al quadro per capire che ciò che osserviamo è percettibile anche agli occhi di chi apparentemente non scorge nulla.
Un altro dipinto che va a confermare quanto detto è “Negro della Louisiana”, eseguito nel 1951. A questa data Afro ha già effettuato il suo viaggio in America ma ciò non influisce in maniera drastica nella sua arte. La costruzione dell’immagine, infatti, ricorda le linee verticali e la sovrapposizione di curve di Giacomo Balla, fautore dell’immagine in movimento. Le tonalità rimangono quelle tenui, senza alcun accostamento drastico di toni contrastanti, contrariamente a ciò che stava avvenendo in America ed alla concezione New Dada del gesto dissacratorio. Rimangono i contorni, rimane la figurazione e rimane il reale: quello che riporta da New York sono i ricordi delle città, delle campagne e soprattutto della gente.
È a partire dal 1952 che qualcosa inizia a cambiare: circondato dalle nuove tendenze e lontano dalle ideologie che si andavano affermando, Afro inizia a sperimentare nuove tecniche e nuovi linguaggi, che esulano dalla realtà e trovano rifugio negli strati più intimi della persona. I contorni vanno scomparendo, l’immagine è costruita attraverso macchie di colore non più similari tra loro, ma molto in contrasto nei toni. Spariscono gli studi preparatori e si afferma la spontaneità del gesto, affinché il ricordo riaffiori per poi essere scritto sulla tela.
Come un diario allora, la stessa tela diviene luogo di esperienza emotiva, manifestazione di un reale che nasce solo dalla spontaneità dell’artista e non da un ricordo visivo del visto. Di questo periodo solo le opere “Disegno Grande” e “Disegno Grigio”.
Ma le radici di una persona non è facile cancellarle, ed estraneo ai sentimenti altrui ed al loro allontanarsi da ciò che è stato, Afro si riavvicina ben presto alle sue origini. Lasciando alle spalle le due sale al pian terreno, si giunge alla fase finale del percorso dell’artista friulano. Si susseguono nuovamente una serie di studi, di varie dimensioni questa volta.
La figura torna a farla da padrona ed anche quando ci si trova di fronte a “Tiresia”, non si può non trovare un legame con il passato, nonostante la sua apparente astrazione. Teresia infatti è un indovino greco e ciò non può non mostrare la grande cultura che sottende ogni opera di Afro.
La mostra termina con gli studi per “Il Giardino della Speranza”, eseguiti nel 1958 per decorare assieme ad altri artisti (tra cui Mirò, Picasso e Matta) la nuova sede del Palazzo dell’ UNESCO a Parigi. A Roma sono esposti solamente sei lavori, ma nella realtà Afro eseguì molti più studi. La grande differenza rispetto a quelli del passato sta nella varietà che distingue l’uno dall’altro: ogni lavoro infatti, sembra essere molto lontano da quella che poi sarà l’effettiva stesura definitiva.
Parlare brevemente di Afro è impresa assai ardua. L’artista friulano è testimone di un cambiamento in atto che si avvia dal primo dopoguerra e giunge ad un’epoca a noi più prossima. Il suo distinguersi dagli altri ha fatto sì che rimanesse un artista sempre alla portata di tutti ed amato da chi si accinge a studiarlo. Grazie ad Afro, è possibile confermare che non tutto ciò che non capiamo è inevitabilmente “brutto” e da scartare, bensì è da capire ed accogliere perché dietro al colore ed alla tela vi è sempre una persona, un cuore ed un profondo sentimento. Sta a noi coglierne il messaggio. Questo voleva Afro, questo è ciò che io mi auguro tutti facciano.