di Anna Alfieri
Ieri sera, non so nemmeno io perché, ho cercato di immaginare quale orrendo costume avrei potuto indossare per la festa di Halloween senza tradire il mio essere una tarquiniese verace. Riflettendoci bene, ho infine concluso che per spaventare la gente mi sarebbe bastato uscire da casa senza quel minimo filo di trucco che mi dà un po’ di colore, con i capelli arruffati e con la faccia feroce che mi viene quando penso ai brutti tempi che stiamo vivendo.
Ma il mio eventuale e ipotetico cavaliere, lui, cosa avrebbe mai potuto indossare? Pensando e ripensando sono tornata indietro nel tempo e ho ripercorso tutta la storia locale attraverso i briganti maremmani, i soldatacci di Vitelleschi e di Cesare Borgia, i poveri martiri impiccati tutti in fila alla Monterana, il femminicida ghigliottinato da Mastro Titta sotto torre Barucci, lo sgozzatore di prostitute all’Alberata e, alla fine, ho trovato la soluzione: il mio accompagnatore avrebbe dovuto vestirsi come il Phersu, l’etrusco crudele dipinto due volte nella Tomba degli Auguri, un ceffo così inquietante che la moglie di David Herbert Lawrence, Frieda von Richtofen, parente del Barone Rosso, l’aveva perfino ricamato su un pezzo di tela. Segno inequivocabile che lo scrittore inglese aveva saputo trasfondere in lei la violenta emozione da lui stesso vissuta quando, visitando nel 1927 Tarquinia, lo aveva scoperto all’improvviso e ne era rimasto sconvolto. Perché, sensibile e sensitivo, aveva intravisto, dietro la sua maschera rossa, il volto spaventoso di un boia o qualcosa di ancora più oscuro e profondo.
Infatti in una parete degli Auguri il Phersu appare come un uomo tarchiato, muscoloso e invasato d’energia fin sulla punta delle dita che, con il viso travisato da un cappello a forma di cono, una maschera di legno rosso e una barba posticcia, si muove in un campo fiorito con passi decisi non si sa se di fuga o di danza o di pura follia. Una creatura primordiale e beffarda che nasconde con cura i suoi lineamenti, ma permette con allegra innocenza che i suoi sostanziosi attributi maschili spuntino vispi e solari sotto l’orlo cortissimo della sua camiciola svolazzante.
Nella parete opposta indossa invece un crudo corpetto di cuoio nero maculato di bianco, e, ecco l’orrore degno di Halloween, aizza un molosso contro un uomo ferito già grondante di sangue, una vittima sacrificale che tenta di difendersi brandendo alla cieca un bastone, ma che è condannata a morire senza dignità perché – con le gambe imbrigliate dal guinzaglio del cane e con il capo chiuso in uno spesso sacco che le impedisce di vedere – si muove con gesti grotteschi che suscitano i lazzi di quelli che godono nel vederla morire così.
Sul Phersu di Tarquinia sono stati versati fiumi d’inchiostro e formulate decine d’ipotesi interpretative. Alcuni studiosi vedono in lui un saltimbanco divertente, sguaiato ed esibizionista, capace perfino di uccidere per compiacere il suo pubblico. Altri lo considerano il demone infernale che istiga Cerbero ad azzannare i colpevoli più turpi, quelli accusati di parricidio. Altri ancora riconoscono, nella macabra scena da lui orchestrata, l’anticipazione etrusca dei giochi gladiatori romani ad bestias. Infine, i glottologi concordano nel far risalire al nome tarquiniese di Phersu la parola ‘persona’, cioè ‘personaggio’ che sulla scena rappresenta i vizi e le virtù degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi del mondo. Insomma una maschera teatrale identificativa che attraverso i secoli si ripete e si riproduce continuamente nei miti, nelle leggende, nelle favole, nelle fantasie, nei sogni e negli incubi del nostro immaginario collettivo e che, quindi, è immortale. In questa accezione, Phersu rappresenta l’uomo crudele e vile che si nasconde nella follia per trasformare – a suo capriccio – l’allegria in orrore, la festa in tragedia, spegnendo la vita in una morte indecente.
Il nostro Phersu ha un fratello più giovane, Arlecchino, anche lui inaspettatamente degno di un travestimento halloweeniano perché, nonostante le sue smancerie, è considerato il demonio delle profondità sotterranee, colui che in preda alle passioni più elementari è sempre complice di un inganno e sempre il traditore capace di tutto.
Ogni maschera ha i suoi simboli. Quelli di Phersu sono i suoi strumenti di tortura: il cane assassino, il bastone con cui la vittima cerca invano di difendersi e il sacco che le impedisce la vista. Gli stessi simboli – cane, bastone e sacco – che, sebbene deformati e consunti dallo scorrere dei millenni, ho riconosciuti, con mia grande sorpresa, nell’ambigua figura dell’Arcano Maggiore dei tarocchi, il Matto, la prima carta del mazzo e anche l’ultima se si vuole usare quel mazzo a ritroso. L’imprevedibile Matto, il numero zero, creativo e innocente, profeta visionario e buffone confusionario, inconcludente portatore di cose sublimi, ma anche tremende. Cose che io, non praticando i tarocchi, non conosco e non voglio nemmeno conoscere.
Perciò, spaventata dal sospetto che in fondo il Phersu, Arlecchino e il Matto siano una sola e inscindibile entità vagolante tra noi, a questo punto – Halloween o non Halloween – per scaramanzia smetto di indagare e smetto perfino di scrivere. Però, prima di chiudere definitivamente questa strana partita, calo sul tavolo di questo gioco perverso la mia carta preferita, il Phersu dei nostri atomici giorni, il mio jolly speciale. Il molto, ma molto, malvagio Joker di Gotham City, l’ineffabile e soave super criminale festoso e divertente che, per meglio ingannarci, ha impresso il suo ghigno sbilenco e letale sul volto cinematografico e postmoderno di Jack Nicholson, l’istrione più istrione che c’è.