Riproponiamo un pezzo di Anna Alfieri giù diffuso su queste pagine nel gennaio del 2018
Colleen Mc Cullough (1937-2015), scrittrice australiana, nel 1993 conseguì – honoris causa – una laurea in lettere presso la Macquarie University di Sidney. Non per le sue popolari opere narrative che, come Uccelli di rovo, a quei tempi erano lette in ogni angolo del mondo universo, ma per i suoi monumentali studi di storia romana nella tarda epoca repubblicana in cui vissero Caio Mario, Lucio Cornelio Silla e Giulio Cesare, nipote di entrambi. Studi da cui trasse sei romanzi storici per i quali impegnò dieci anni di vita e, a suo dire, tre milioni di parole solo per riordinarne gli appunti.
Di questa collana, confesso, ho letto solo il primo volume, quello che racconta la strana guerra tra Caio Mario e Giugurta re di Numidia, combattuta tra il 111 e il 105 a.C. in Africa settentrionale, più o meno nell’odierno Maghreb. Tuttavia ammetto che la lettura serale di quel librone pieno di intrighi e sorprese è stata, per me, bella e leggera perché la chiacchierina scrittrice australiana, amante delle digressioni e dei dettagli, ha sempre trovato il modo di dipanare i grovigli storici più complicati senza farmi annoiare.
Eppure una sera, arrivata felicemente a pagina 333 riga 58, improvvisamente rimasi confusa quando due impreviste parole – “Tarquinia” e “lumache” – mi apparvero del tutto inadeguate ad una remota ed esotica guerra africana avvenuta duemila e più anni fa. Ciò nonostante, l’indomabile Mc Cullough trovò, ancora una volta, il modo di raccontarmi tutto per filo e per segno senza affliggermi troppo.
Riassumo: nel maggio del 105 a.C., Caio Mario, interrompendo per un mese l’inseguimento dell’esercito giugurtino, fece accampare le sue legioni lungo le rive erbose di un fiume che oggi in Marocco si chiama Muluya. Un militare ligure, tale Publio Vagennio che serviva nella cavalleria ausiliaria, pascolando i suoi due cavalli, trovò – in un luogo solo a lui noto – la più grande, la più carnosa, la più tenera e la più bella lumaca che avesse mai visto. Poi ne trovò altre due, poi dieci, poi cento, poi mille, poi migliaia di migliaia, tutte raggruppate in una specie di tappeto vivente che conduceva ad una fortificazione nemica sconosciuta ai Romani, ma pullulante di soldati numidi pronti a un attacco a sorpresa.
Portando con sé due chiocciole di aspetto regale, corse alla tenda del capo, dove lui – infimo inserviente di cavalleria sussidiaria – osò l’inosabile e propose direttamente all’immenso Caio Mario uno scambio di favori. Se il condottiero gli avesse assicurato il diritto esclusivo di commerciare in lumache africane in tutti i mercati di Roma, lui, Fabio Vagennio, avrebbe indicato ai legionari l’ubicazione strategica di una introvabile fortezza nemica.
“Affare fatto – rispose subito il condottiero – conosco a Tarquinia in Etruria un uomo che alleva e importa lumache. Si chiama Fulvio Lippino e mi deve molto denaro. Perciò a un mio ordine ti farà ottenere tutto quello che vuoi”.
Accadde così, che grazie a un uomo indebitato a Tarquinia, nel 105 a.C. Caio Mario rase al suolo una fortezza nemica nel lontano Maghreb, incamerò il tesoro che Giugurta aveva nascosto proprio in quel luogo, sterminò metà dell’esercito numida senza perdere nemmeno un legionario e ottenne il trionfo. Accadde anche che in pochi anni un modesto milite ligure divenne un ricchissimo mercante di chiocciole africane con il nome di Fabio Vagennio Lumaca ed accadde perfino che molti secoli più tardi io, una sera, mi addormentai felice di aver aggiunto un curioso tassello alla storia della mia città.
Purtroppo, però, dopo pochi minuti mi risvegliai di soprassalto nell’orrido sospetto che la furba scrittrice australiana, per compiacere i suoi viziati lettori, avesse inventato di sana pianta l’episodio delle lumache e che a Tarquinia quell’allevamento di chiocciole non fosse mai davvero esistito.
Con il cuore in frantumi, con il cervello che mi frullava come un mulinello impazzito, con i capelli dritti sprizzanti elettricità, con gli occhi sbarrati e i polpastrelli spalmati sulla tastiera, passai ore e ore davanti al computer. In compenso, l’indomani mattina, dopo una notte di studio che Giacomo Leopardi avrebbe definito “matto e disperatissimo”, fui in grado di proclamare a me stessa e al mondo che sì, nel 105 a.C., ai tempi di Mario e Silla, l’allevamento di lumache a Tarquinia era storicamente provato. Parola di Plinio il Vecchio in Naturalis historia, di Publio Terenzio Varrone in De Re Rustica e del golosissimo Apicio in De Re Coquinaria, cioè “l’arte di cucinare”.
Infatti Plinio il Vecchio afferma, senza ombra di dubbio, che Fulvio Lippino aveva perfino avviato un servizio di traghetti per importare chiocciole fresche da Capri, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalle coste spagnole e dall’Africa settentrionale (evviva!). Publio Terenzio Varrone aggiunge che il nostro compaesano allevava le sue lumache in vivai separati per distinguere quelle bianche di Rieti da quelle enormi dell’Illiria, e quelle saporitissime spagnole da quelle ‘particolarmente prolifiche’ provenienti dall’Africa (evviva, evviva!). Lumache che poi vendeva a caro prezzo al Forum Cuppedinis, cioè il mercato delle delizie di Roma che si trovava tra la via Sacra e l’Argileto. Infine, Apicio conclude che a Tarquinia le chiocciole venivano allevate con farine di cereali ed erbe aromatiche e poi, depurate nel latte, fritte o arrostite, giungevano nelle case dei ricchi romani accompagnate da salse dolci o piccanti.
Perciò io ora voglio, sempre voglio, fortissimamente voglio pensare che quelle salse golose profumassero di sacrosanta mentuccia anche sulla tavola di Cesare.